CorteSia, politica e magistratura
Per quanto possa apparire ardito, c’è un nesso fra la Corte costituzionale che smonta il regionalismo differenziato e il solidarizzare con Musk contro la funzione giudiziaria
CorteSia, politica e magistratura
Per quanto possa apparire ardito, c’è un nesso fra la Corte costituzionale che smonta il regionalismo differenziato e il solidarizzare con Musk contro la funzione giudiziaria
CorteSia, politica e magistratura
Per quanto possa apparire ardito, c’è un nesso fra la Corte costituzionale che smonta il regionalismo differenziato e il solidarizzare con Musk contro la funzione giudiziaria
Per quanto possa apparire ardito, c’è un nesso fra la Corte costituzionale che smonta il regionalismo differenziato e il solidarizzare con Musk contro la funzione giudiziaria
Per quanto possa apparire ardito, c’è un nesso fra la Corte costituzionale che smonta il regionalismo differenziato e il solidarizzare con Musk contro la funzione giudiziaria. Un nesso di responsabilità diverse e convergenti, che falsano il senso di uno Stato di diritto. Un nesso pericoloso, perché agitato da chi crede che la sovranità sia alternativa alla complessità. Chi detiene quella sovranità non è forse il popolo e, per sua delega, gli eletti, talché tacciano i non eletti? No. In uno Stato di diritto nessuno detiene il potere e la sovranità si esercita nel concorrere delle diverse funzioni, nel provare a camminare assieme. I cultori degli ‘eletti’ sono gli orfani dei totalitarismi del secolo scorso. La democrazia non la capirono e non la capiscono: la detestano.
Il concerto dei poteri ha però bisogno che ciascuno si attenga alla propria funzione e la eserciti con diligenza. È naturale che ci siano delle sovrapposizioni e delle frizioni. Ma quando l’uno dilaga nell’altro, quando la politica inonda la magistratura e il giudiziario esonda nel politico è segno che l’intero sistema è entrato in fibrillazione, creando un problema di civiltà.
Prendiamo il regionalismo differenziato: la peggiore riforma costituzionale pensabile la fece la sinistra, ma era legittima; l’attuazione è ora volontà della destra, il che è legittimo. Ma le norme sono state scritte – prima e poi – per essere dei manifesti, per lanciare messaggi politici, sicché redatte con sciatteria e ipocrisia, mettendoci tutto e il suo contrario. Il che apre il varco al giudizio costituzionale, che non potendosi esercitare sulla riforma costituzionale si scarica sulla sua applicazione. Applicazione che hanno votato anche quelli che nella maggioranza non la condividevano, usando la fissazione dei Livelli essenziali delle prestazioni come arma per non farla partire mai. Oggi i Lep sono causa di quello per cui erano stati introdotti: lo stop. Solo che la politica ha preferito fosse la giustizia costituzionale a dirlo (e la destra che votò la legge è oggi ben felice che non si tenga subito il referendum).
Così come il legislatore ha preso la pessima abitudine delle leggi a maglie larghe – fra le quali può passare di tutto, così scaricando su altri le sue responsabilità – la magistratura ha preso il pessimo vizio della correntizzazione corporativa, vivendosi come oracolo insindacabile e così potendo correggere le leggi che quel singolo giudice (in consonanza con la sua corrente) non condivide. Il legislatore non interviene però sul meccanismo guastatosi, prendendo per le corna il toro del corporativismo antagonista, ma produce altre norme che pensano di imbrigliarlo e invece rendono più caotico il sistema. Le leggi sono sempre meno prescrittive e le sentenze sono sempre più descrittive.
Aveva capito tutto Publio Cornelio Tacito, nel primo secolo dopo Cristo: «Corruptissima re pubblica plurimae leges». Più cresce il numero delle leggi e più si corrompe la vita pubblica; più quella si corrompe e più si fanno leggi per evitarlo; più si moltiplicano e meno ha valore quello che c’è scritto. Una trappola senza limiti di schieramento. A quel punto i politici chiedono con quale diritto il magistrato si permetta di violare la volontà del delegato dal popolo e il giudice chiede come si permettano i politici di violare il diritto che garantisce la libertà e la sovranità del popolo. Sembrano non capire che o vanno in sincrono, nella diversità radicale delle funzioni, o vanno a fondo. In sincrono non significa in accordo, ma concordando sul sistema che delimita le funzioni.
La toga s’immagina così d’essere la voce di una giustizia amministrata come valore e non come metodo, mentre la politica immagina che senza toghe sarebbe più diretta la volontà popolare, venendo così entrambe meno ai doveri di cortesia istituzionale che la Costituzione definisce «leale collaborazione». Il risultato non è la determinazione nel perseguire un fine, ma l’arroganza inconcludente di misurarlo soltanto su sé stessi.
di Davide Giacalone
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Tag: Italia
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