“Al centro del disco c’è il ritorno alla luce”, Evocante racconta “All’improvviso – Canzoni Lievi”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Evocante sul suo ultimo disco “All’improvviso – Canzoni Lievi”
“Al centro del disco c’è il ritorno alla luce”, Evocante racconta “All’improvviso – Canzoni Lievi”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Evocante sul suo ultimo disco “All’improvviso – Canzoni Lievi”
“Al centro del disco c’è il ritorno alla luce”, Evocante racconta “All’improvviso – Canzoni Lievi”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Evocante sul suo ultimo disco “All’improvviso – Canzoni Lievi”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Evocante sul suo ultimo disco “All’improvviso – Canzoni Lievi”
Nel mare magnum della musica liquida sembrerebbe cosa facile trovare qualcosa di nuovo e interessante da ascoltare. Invece, non è propriamente così. Ogni tanto ci divertiamo a scavare per voi in questo universo in continua espansione per trovare artisti che meritano un ascolto attento. Poi starà all’ascoltatore scegliere se seguire l’artista in questione o veleggiare verso altri lidi.
Vincenzo Greco, nato a Vibo Valentia e quasi sempre vissuto a Roma, è cantautore e artista multimediale. Conosciuto col nome d’arte di Evocante, ha già all’attivo diversi album, l’ultimo dei quali, “All’improvviso- Canzoni Lievi”, è stato al centro di una chiacchierata con lui.
Com’è nato questo disco?
È successo tutto all’improvviso, ovviamente. Proprio come il titolo suggerisce, questo è il quarto disco. Lo scorso febbraio avevo pubblicato Siamo esseri emozionali nella sua versione completa. Subito dopo, però, mi è venuta l’idea di rifare il primo album, perché a mio avviso non suonava bene. Non era solo una questione di mix: volevo anche rivedere gli arrangiamenti.
Questa decisione mi ha portato a lavorare sulla prima traccia, ma presto mi sono ritrovato a esplorare una sonorità che mi ha spinto a creare nuove canzoni. Il primo album era rock e seguendo questa nuova ispirazione è nato un disco che definisco fatto di “canzoni lievi”. Ho eliminato molte delle sovrastrutture presenti nei lavori precedenti, riducendo la presenza dei sintetizzatori, che comunque ci sono, ma in modo più dosato. Sono andato più a fondo nella semplicità, all’essenza delle cose.
La genesi di questo disco è stata davvero improvvisa e sia la fase compositiva che quella di registrazione sono state piuttosto rapide.
Diciamo quindi che non c’è stata una visione programmatica
No, no, nulla di programmatico. È nato tutto in modo molto spontaneo, naturale, senza una decisione precisa. I suoni sono diventati più leggeri. E con “leggeri” non intendo quelli della musica leggera pop, anche se forse qualche brano risulta più pop rispetto ai miei lavori precedenti. Intendo una leggerezza, per così dire, “calviniana” – un po’ come volare, planare sulle cose con delicatezza.
Ora, col senno di poi, riesco a spiegarmelo così: i temi del disco sono importanti. In fondo è un concept album anche questo, perché racconta il ritorno della luce dopo momenti di buio. Il buio potrebbe rappresentare momenti difficili, come la depressione. Io non ne ho sofferto personalmente, ma ho letto molte storie, anche di artisti.
Con un tema così, il rischio è quello di risultare pesanti. Per questo ho scelto la lievità, sia nei suoni che nelle parole, come strumento per affrontarlo. Solo alla fine del disco si capisce che parlo anche di questo: c’è una testimonianza di Vittorio Gassman che racconta come è uscito dalla depressione. Tuttavia, il disco non parla di depressione, ma del ritorno della luce.
Immagino ci sia anche la speranza che questo disco possa esser di conforto per chi sta vivendo un periodo complicato
Sì, il potere della musica è proprio questo. È l’arte più immateriale che esista, ma al tempo stesso ha un potere materiale enorme: ci aiuta a tirarci su, a commuoverci, a emozionarci. A volte ci dà anche una spinta motivazionale per fare qualcosa. Pensa, ad esempio, agli sportivi che ascoltano musica prima di una gara. Non so che tipo di musica scelgano, ma al di là del genere, è evidente che la usano per caricarsi, per motivarsi. Questo dimostra quanto la musica abbia un potere incredibile.
E non è solo nei casi estremi, come affrontare la depressione. Anche nei momenti di disagio, disorientamento, o semplicemente di riflessione sul tipo di vita che conduciamo, la musica può essere un mezzo potente. Ci si può chiedere: “Ma è davvero questa la vita che vogliamo?”. Roger Waters ha intitolato un disco su questo tema, riflettendo sulla vita che conduciamo e se davvero ci soddisfi.
Ragionare su queste domande significa andare in profondità, ma anche guardare oltre. Non si tratta solo di lamentarsi, ma di trovare la forza per cambiare, per trasformare le nostre vite in quelle che davvero desideriamo
Mi accennavi prima che sei solito lavorare ad un concept per ogni disco
Sì, tutto quello che ho fatto è sempre stato legato da un tema comune. Ad esempio, il primo disco, già dal titolo, era centrato sui tempi che viviamo, mettendo in evidenza alcune storture della modernità. Questa riflessione è poi confluita anche in un libro, che uscirà ad aprile, intitolato Il tempo moderno e i suoi inganni. Nel libro ho coinvolto diversi autori per esplorare prospettive, diciamo, “anti-moderniste”, anche se questo termine potrebbe essere frainteso.
Viviamo in un’epoca dominata dall’istantaneità perenne, e questo si riflette anche nella musica. Ci hai fatto caso? Oggi le canzoni devono colpire nei primi 10 secondi, altrimenti l’ascoltatore, con un semplice gesto, passa ad altro. Questo ha tolto spazio all’approfondimento, sia nei testi che nella musica. I testi sono spesso episodici, trattano argomenti fini a sé stessi, senza stimolare una riflessione profonda. Allo stesso modo, la musica non racconta più una storia: è frammentata, pensata per catturare l’attenzione immediata.
Per esempio, alcuni iniziano direttamente con il ritornello per impressionare subito, ma così si perde il senso di costruzione e narrazione. Eppure, è proprio attraverso la riflessione che maturiamo qualcosa di duraturo, qualcosa che ci rimane nel tempo.
Ricordo ancora l’impatto che ebbe su di me l’ascolto dei Pink Floyd. Dopo trent’anni, ricordo non solo la loro musica, ma anche ciò che ho maturato ascoltandoli. Mi chiedo: tra trent’anni, chi ascolta oggi riuscirà a portare con sé un processo simile?
Ogni intervento artistico nasce da te, dall’artista. È un’urgenza espressiva, qualcosa che ogni artista sente dentro. Oggi, invece, non sempre c’è questo intento artistico. Spesso si cerca semplicemente l’intrattenimento, che è qualcosa di diverso. Forse sono io che non riesco a comprenderlo completamente, ma credo che anche nelle cose nuove ci sia qualcosa di artistico che riesco a riconoscere.
L’arte è fatta per comunicare, per approfondire, per scoprire dentro di sé e dare agli altri la possibilità di fare lo stesso. È un’esigenza comunicativa. Ma per l’intrattenimento… beh, quello può farlo anche un computer.
Ci racconti meglio com’è nata l’idea di dar vita ad uno spettacolo teatrale che fonde la tua musica al lascito artistico di Battiato?
Battiato è la persona che più ha influito sulla mia vita, su tanti aspetti, non solo come ascoltatore e musicista, ma anche in altri ambiti. In particolare, gli aspetti più rilevanti sono quelli filosofico-spirituali. Lui non ha inventato nulla di nuovo ma ha portato all’attenzione di molte persone, me compreso, tematiche che probabilmente non avrei conosciuto o approfondito. In questo senso, Battiato è stato un didatta. Per questo motivo, penso sia giusto chiamarlo maestro ma non nel senso superficiale per cui molti lo chiamano così, termine che a lui non piaceva. Lo considero maestro perché ha fatto conoscere un tipo di pensiero, come quello buddista, la meditazione e l’idea dell’unione delle religioni, senza renderle necessariamente confessionali.
Lo seguo da quando avevo undici anni, quando è uscito La voce del padrone. Come molti, sono rimasto affascinato da quel disco e poi ancora di più dai suoi lavori successivi. Non è stato un semplice innamoramento per quel capolavoro pop, ma un interesse che è cresciuto, e sono andato più a fondo, proprio come ha fatto lui. L’ho seguito nelle sue evoluzioni, fino alla proposta di realizzare uno spettacolo che non fosse un semplice omaggio, visto che oggi ci sono tanti tributi e omaggi a Battiato.
Il mio spettacolo teatrale, che si intitola L’infinito fra le mani, non è un omaggio. Ho voluto proseguire su un certo tipo di discorso rischiando con un approccio personale. Ci metto molto di mio e lo spettacolo prosegue i temi che lui aveva proposto. A livello musicale, non faccio cover, anche se nel mio spettacolo ci sono molte sue canzoni. Ma sono mescolate, reinterpretate, con la mia sensibilità, mantenendo la sua elettronica orchestrale in modo che non possano essere considerate semplici cover.
Dentro lo spettacolo c’è anche un testo teatrale che ho scritto io, recitato dagli attori, sempre incentrato su quelle tematiche. È come se Battiato fosse stato un pretesto per parlare di questioni che, guarda caso, sono simili a quelle di cui ti parlavo prima: che vita stiamo facendo? Ci piace davvero la vita che conduciamo? Stiamo dimenticando parti importanti di noi stessi, rincorrendo discorsi come il denaro, il successo, la carriera, l’affanno quotidiano delle urgenze.
Urgenze che, in realtà, non sono così urgenti, ma che ci fanno dimenticare cose più importanti su cui dovremmo concentrarci. Devo dire che questa è stata la soddisfazione più grande per me. Lo spettacolo, oltre ai sold out che non mi aspettavo, è stato davvero apprezzato. Ho visto dai messaggi che mi hanno scritto dopo che le persone sono rimaste colpite. Mi hanno scritto nei giorni successivi dicendo: “Sai, sto ripensando a quella scena, a quel testo”, e questo significa che ho raggiunto il mio obiettivo.
di Federico Arduini
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- Tag: musica, Musica italiana
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