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Formìggini, l’ebreo che volò dalla Ghirlandaia

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Inchiniamoci tutti davanti ad Angelo Fortunato Formìggini che si uccise per amor di patria e per ridare agli italiani una fede nella vita libera e dignitosa

Formìggini

Formìggini, l’ebreo che volò dalla Ghirlandaia

Inchiniamoci tutti davanti ad Angelo Fortunato Formìggini che si uccise per amor di patria e per ridare agli italiani una fede nella vita libera e dignitosa

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Formìggini, l’ebreo che volò dalla Ghirlandaia

Inchiniamoci tutti davanti ad Angelo Fortunato Formìggini che si uccise per amor di patria e per ridare agli italiani una fede nella vita libera e dignitosa

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Il 28 novembre 1938 un uomo, alto e distinto, parte da Roma in treno diretto a Modena. Giunto in serata in Emilia cena con una cotoletta ai tartufi e lambrusco, poi va a teatro. La mattina dopo scrive una lettera di addio alla moglie, Emilia Santamaria, e saluta tutta la famiglia. Esce, incontra un amico e gli dice dove sta andando: «Salgo lassù per la scala; scenderò dall’esterno, sarà meno gravoso». Indica la Ghirlandina, la torre campanaria che al suo interno custodisce la “secchia rapita”, trafugata dai modenesi ai bolognesi: un arnese di legno – una tinozza, una mastella – reso famoso dal poema eroicomico di Alessandro Tassoni. La torre quel giorno è però chiusa per restauri. L’uomo conosce il custode e gli chiede di andare a chiamare un amico al bar di fronte. Così riesce a entrare e salire. Corre su per le scale. Giunge in cima, sotto la campana. Si arrampica. Si mette in piedi sul davanzale e si getta nel vuoto urlando: «Italia! Italia! Italia!». Chi era? Angelo Fortunato Formìggini.

Antonio Castronuovo ha dedicato al grande editore il libro – bello e drammatico, leggero e austero – “Formìggini. Vita umoristica (e tragica) di un editore del ‘900” (Pendragon). Ha raccontato con ammirazione e con commozione la storia di questo italiano ebreo o ebreo italiano che non faceva nessuna differenza fra sé e l’Italia che amava con tutto sé stesso, al punto di concepire una singolarissima casa editrice che, a ben vedere, era un modo geniale, civile, amabilissimo di amare e illustrare proprio l’Italia. La sua avventura editoriale – la storia straordinaria nel vero senso della parola, ossia fuori dall’ordinario, di A.F. Formìggini Editore – dura esattamente trent’anni: dal 1908 al 1938. Al trentesimo anno s’interrompe bruscamente con il volo giù dalla Ghirlandina. Perché? Perché il Trentotto è l’annus horribilis del fascismo che con le leggi razziali antisemite mette fuori legge gli ebrei, gli ebrei italiani e gli italiani ebrei che pur avendo una patria – l’Italia – si ritrovano a essere apolidi, senza casa, senza scuola, senza lavoro, senza proprietà. Formìggini che ha fatto dell’umorismo, dell’ironia, della comicità, della risata una filosofia editoriale e una filosofia di vita – Risus quopque vitast (La vita è anche riso, è uno dei suoi motti) – si trova faccia a faccia con la più amara delle verità: la sua patria lo ha tradito.

Formaggino da Modena – come lui chiama sé stesso – il 27 giugno 1938, quindi addirittura prima dell’approvazione delle leggi antisemite, scrive in versi: «Si condannò a morte per alto tradimento / sostituendosi al vero colpevole / per stornare dalla sua Patria / amorosamente diletta / il danno e la vergogna». Il suicidio di Formìggini è un atto di protesta, scrive giustamente Castronuovo. Forse l’unico possibile contro la stupidità di Mussolini che trasforma il razzismo in legge di Stato, ma è anche il sacrificio della vita per salvare la vita, il sacrificio di sé per salvare l’Italia dal «danno e la vergogna» che le sono scaraventate addosso.

Inchiniamoci tutti davanti a quest’uomo che si uccise per amor di patria e per ridare agli italiani una fede nella vita libera e dignitosa. Amor et labor vitast (La vita è amore e lavoro) era ancora un suo motto e, privato di amore e lavoro, ci ha donato amore e lavoro per riscattarci da una storia che non ripeteremo soltanto se la conosciamo.

di Giancristiano Desiderio

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