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A 100 anni dalla nascita di Tony Curtis, icona della commedia americana

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Il 3 giugno 1925 nasceva a New York, Bernard Herschel Schwartz, destinato a diventare una delle icone più affascinanti e contraddittorie del cinema americano con il nome di Tony Curtis

Tony Curtis

A 100 anni dalla nascita di Tony Curtis, icona della commedia americana

Il 3 giugno 1925 nasceva a New York, Bernard Herschel Schwartz, destinato a diventare una delle icone più affascinanti e contraddittorie del cinema americano con il nome di Tony Curtis

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A 100 anni dalla nascita di Tony Curtis, icona della commedia americana

Il 3 giugno 1925 nasceva a New York, Bernard Herschel Schwartz, destinato a diventare una delle icone più affascinanti e contraddittorie del cinema americano con il nome di Tony Curtis

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Il 3 giugno 1925 nasceva a New York, nel Bronx, Bernard Herschel Schwartz, destinato a diventare una delle icone più affascinanti e contraddittorie del cinema americano con il nome di Tony Curtis. A cent’anni esatti dalla nascita, la sua figura resta emblematica del sogno americano vissuto tra luci abbaglianti e ombre profonde.

Figlio di immigrati ebrei ungheresi, cresciuto in un contesto familiare difficile (il padre sarto, la madre violenta e affetta da disturbi psichici), il piccolo Bernard dovette affrontare fin da subito la povertà, il dolore (la perdita del fratellino Julius, travolto da un camion) e la follia del fratello Robert. Esperienze traumatiche che lo temprarono e gli insegnarono a sopravvivere con l’unica arma che aveva a disposizione: una parlantina rapida e tagliente. Prima di diventare attore, fece il servizio militare nella Marina durante la Seconda guerra mondiale. E fu testimone diretto della resa del Giappone a bordo del sottomarino “Uss Proteus”. Al ritorno si iscrisse a un corso di recitazione con Erwin Piscator, dove studiò con futuri giganti come Walter Matthau e Rod Steiger.

Hollywood lo accolse nel 1948 grazie all’intuizione di Joyce Selznick, celebre casting director dell’epoca. Da Bernard Schwartz diventò così Tony Curtis (un nome ispirato al romanzo “Anthony Adverse” di Hervey Allen). E, dopo piccoli ruoli in “Criss Cross” e “Winchester ’73”, trovò la consacrazione nel 1957 con il capolavoro noir “Piombo rovente”, accanto a Burt Lancaster. Nel 1958 arrivò la sua prima e unica nomination all’Oscar per “La parete di fango”. Intensa parabola sull’intolleranza razziale in cui recitò al fianco di Sidney Poitier. Ma è nel 1959 che firmò il ruolo che lo ha reso immortale in “A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder. In abiti femminili, seduce Marilyn Monroe e Jack Lemmon in una delle commedie più perfette della storia del cinema. Ancora oggi quel Tony Curtis in parrucca bionda è un’icona culturale, simbolo di un’epoca e di una rivoluzione dell’immaginario maschile.

Attore camaleontico, seppe spaziare dalla commedia brillante al dramma psicologico. Come ne “Lo strangolatore di Boston” del 1968 – nel quale interpretò con disturbante intensità un serial killer schizofrenico – o in “Spartacus”, diretto da Stanley Kubrick e al fianco di Kirk Douglas. Pellicole che ne consolidarono la già enorme popolarità. Fu anche una star del gossip. Sei mogli (fra le quali l’altra diva Janet Leigh), decine di amanti (tra cui Marilyn Monroe) e una figlia, Jamie Lee Curtis, oggi a sua volta icona di Hollywood. Negli anni Settanta privilegiò la tv al cinema. Realizzando un piccolo capolavoro della serialità televisiva come “Attenti a quei due”, in coppia con un altro grande come Roger Moore.

Nei decenni successivi Curtis si ritirò progressivamente dalla scena, dedicandosi alla pittura (che considerava più importante della recitazione). Nel 1993 pubblicò una sincera autobiografia in cui raccontava con autenticità la lotta contro le dipendenze, i flop, le crisi esistenziali. Morì nel 2010 nella sua casa di Las Vegas, a 85 anni, dopo aver attraversato come pochi altri tutte le fasi della macchina hollywoodiana: dalla gloria alla disillusione, dal divismo al lento declino. Eppure anche oggi, nel rivedere la sua ironia scanzonata o la dolente profondità dei suoi ruoli più oscuri, ci si rende conto dell’impronta profonda che l’ex ragazzo del Bronx ha lasciato nel cinema del Novecento. Restituendo l’immagine viva di un attore che ha saputo trasformare la sofferenza in arte e la bellezza in un’arma di sopravvivenza.

di Stefano Faina e Silvio Napolitano

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