I primi 60 anni di Barack Obama
Perché non possiamo fare a meno di Obama, anche se delusioni e disillusioni della sua politica sono almeno pari ai successi ottenuti
I primi 60 anni di Barack Obama
Perché non possiamo fare a meno di Obama, anche se delusioni e disillusioni della sua politica sono almeno pari ai successi ottenuti
I primi 60 anni di Barack Obama
Perché non possiamo fare a meno di Obama, anche se delusioni e disillusioni della sua politica sono almeno pari ai successi ottenuti
Perché non possiamo fare a meno di Obama, anche se delusioni e disillusioni della sua politica sono almeno pari ai successi ottenuti
Barack Obama ha compiuto mercoledì 60 anni ed è tornato prepotentemente a occupare spazi sui media di tutto il mondo, come d’abitudine per un personaggio centrale (e ingombrante) degli ultimi 15 anni di storia globale.
Si può mostrare sufficienza nei suoi riguardi, archiviare la sua eccezionale esperienza politica in un libro dei sogni realizzato solo in minima parte, sta di fatto che il 44esimo presidente degli Stati Uniti d’America rappresenta a tutt’oggi un’idea di politica data per finita. Sin troppo ingenua e positivista per molti e non priva di una retorica persino ingenua, ma di fatto senza eguali.
Chi riduce la sua eccezionalità all’etnia, all’elezione del primo afroamericano alla Casa Bianca, mostra di non voler andare oltre la superficie del fenomeno-Obama. Il colore della pelle, come ovvio, ha avuto un peso determinante nella sua parabola, ma è risultato decisivo credere che nulla fosse impossibile. Il “Yes We Can” interpretò magnificamente proprio la tensione ideale verso quello che gli altri ti dicono sia irrealizzabile.
Dopo una lunghissima stagione, certo non solo americana, di politica strettamente utilitaristica, caratterizzata quasi dalla vergogna di indicare traguardi alti e nobili, la parabola politica di Barack Obama riaprì il libro dei sogni. Amaro contrappasso, le inevitabili delusioni pratiche, dalle scelte di politica estera rivelatesi velleitarie o semplicemente errate o le gigantesche scommesse interne, scolorite in inevitabili compromessi al ribasso. Nessuna persona sana di mente avrebbe potuto ipotizzare una sua infallibilità strategica, così come certa agiografia – ricordiamo tutti il premio Nobel per la pace assegnato sostanzialmente sulla fiducia – ha fatto più male che bene.
Resta la sostanza di un’esperienza umana e politica eccezionale. Dispiacerà ai suoi numerosi detrattori in patria e all’estero di allora e di oggi, ma gli unici paragoni possibili sono con alcuni dei più grandi protagonisti della politica americana del XX secolo. Si può essere choosy o sufficientemente radical chic da considerare quasi con fastidio un uomo che ha avuto il coraggio di porre temi e obbiettivi a cui non siamo più abituati. Assuefatti al cinismo così in voga, rassicurante perché poco impegnativo, a buon prezzo per chiunque.
Quando si parla di Barack Obama, poi, non è possibile prescindere da Michelle, molto più di una first lady. La politica statunitense quasi obbliga all’esposizione, spesso in forme vagamente hollywoodiane, della propria famiglia. Nel caso dei presidenti, mogli, figli, cani e gatti costituiscono parte dell’iconografia ufficiale, ma con gli Obama si è andati decisamente oltre lo schema tradizionale. La personalità di Michelle non è quella di una Hillary Clinton, programmata a tavolino per una carriera in successione al marito. Seguendone passi e cursus honorum. Michelle Obama ha scelto per sé un ruolo da influencer della politica. Ha ingaggiato una serie di battaglie – dalla questione di genere alla dieta sana, a cominciare dai più piccoli – con cui formarsi una personalità complementare a quella del marito ed ex presidente. Non ancillare, come per i Bush o Ronald Reagan, o volutamente distaccata per calcolo, come nel già citato caso Clinton.
Così, per gli Obama la famiglia è diventato un elemento di forza distintivo, quasi un brand di una politica a 360 gradi, non confinata nello Studio ovale e nei mandati presidenziali. Ecco perché non ci libereremo degli Obama. Per qualcuno suonerà come una minaccia, ma abbiamo ancora bisogno di sognare. Anche con la politica.
di Fulvio Giuliani
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