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La pena sia umana come la Costituzione impone dal 1948

L’uomo in carcere non ha nome, non ha personalità, non esiste: esiste il detenuto, categoria a parte, della quale ci si accorge, di norma, solo allorquando si verificano criticità del tipo di quelle che la cronaca di questi giorni ci segnala.

La pena sia umana come la Costituzione impone dal 1948

L’uomo in carcere non ha nome, non ha personalità, non esiste: esiste il detenuto, categoria a parte, della quale ci si accorge, di norma, solo allorquando si verificano criticità del tipo di quelle che la cronaca di questi giorni ci segnala.

La pena sia umana come la Costituzione impone dal 1948

L’uomo in carcere non ha nome, non ha personalità, non esiste: esiste il detenuto, categoria a parte, della quale ci si accorge, di norma, solo allorquando si verificano criticità del tipo di quelle che la cronaca di questi giorni ci segnala.

L’uomo in carcere non ha nome, non ha personalità, non esiste: esiste il detenuto, categoria a parte, della quale ci si accorge, di norma, solo allorquando si verificano criticità del tipo di quelle che la cronaca di questi giorni ci segnala.

Ma sono criticità che ci paiono marginali. Sarebbe facile, quasi istintivo, voltare pagina: tutto quello che ci viene mostrato concerne persone che si sono macchiate di colpe; soggetti indesiderabili che hanno scelto il crimine come opportunità; uomini che hanno leso la stabilità sulla quale si incentra il sistema della convivenza e sono stati condannati. Sarebbe quindi concepibile passare oltre, non vedere, perché in fondo non vi è alcuna problematicità. Se lo facessimo, non potremmo fare a meno di avvertire una sorta di indefinito disturbo, un vago senso di colpa, la percezione – intuita – del fatto che, voltando pagina, avremmo ancora una volta trascurato quello che, in quanto cittadini di un Paese civile, dovrebbe essere un nostro preciso dovere: progredire. Che significa, tra l’altro, dare attuazione a princìpi che sono stati ritenuti fondamentali per una moderna civiltà. Nel caso specifico, considerare che l’articolo 27 della Costituzione recita: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». È prescrizione importante, che pone il fatto di cronaca in una prospettiva assolutamente diversa: non più un problema di persone minori, ma una questione di adeguatezza delle istituzioni. La norma costituzionale è in vigore dal 1948, più di 70 anni: il problema ancora esiste; non è stato neppure minimamente affrontato, se non per aspetti assolutamente marginali. Che è successo, dunque, in questi anni? Come è possibile che nessuno abbia pensato che in carcere ci possono finire persone che non sono state condannate a pena definitiva? Domani, esaurita la – lunga – fase processuale, queste persone potrebbero essere assolte: come risarcire realmente un danno costituito anche dal fatto di avere subìto un trattamento del tipo di quelli che abbiamo visto somministrare nei filmati che marchiano l’inadeguatezza del sistema, non tanto carcerario quanto di recupero e risocializzazione? L’innocente costretto in carcere – sottoposto alla rabbia ottusa di chi dovrebbe favorire la ‘rieducazione’ ma è solo in grado di concepire una forma di violenza insensata – viene ferito ancora più nel profondo di quanto appaia. Difficile cogliere segnali di ‘umanità’ nei gesti di uomini armati che fanno inginocchiare e colpiscono chi non può neppure pensare a difendersi; inconcepibile segnale, sintomo di un fallimento e non solo di disagi legati a contingenze. Il gesto è rivelatore di una inadeguatezza, che è il vero problema: persone che dovrebbero essere formate per recuperare chi ha sbagliato non dovrebbero neppure ideare trattamenti punitivi che evocano immagini di un passato che pensavamo di avere superato. Il dissesto è, dunque, ancora più grave di quanto potremmo immaginare: non saranno sufficienti le risposte severe che vengono invocate con una sorta di distaccato stupore; non sarà una sentenza di condanna o il licenziamento di alcuni a porre rimedio al disastro. Queste sono le risposte, dovute, proprie di ogni moderna democrazia. Importanti ma non utili: ciò che necessita, anche in questo caso, è la creazione, finalmente, del sistema dell’esecuzione penale. Non è importante disquisire di certezza della pena: ciò che è necessario è dare finalmente attuazione a ciò che la nostra Costituzione ha stabilito. Un sistema funzionale al recupero di chi ha subìto una condanna è non solo possibile ma essenziale, altrimenti non serve processare. Una riforma è necessaria. Da dove iniziare? Questo è il problema: ci sono talmente tante cose da fare che è difficile individuare da dove sia opportuno muovere. Attendere è deleterio. Il programma? Scuola, lavoro, edilizia. Che significa: personale in grado di formare; disponibilità di privati a consentire collaborazioni lavorative remunerate, previa trattenuta delle spese di mantenimento; nuove strutture; sistema di monitoraggio del livello di recupero, con previsione di strumenti premiali. Per iniziare. Non detenuti ma uomini.   Di Cesare Flavio Cicorella

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