La posta a Kabul
Il ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan spalanca la strada a una guerra di religione: uno scenario da evitare con tutte le nostre forze.
La posta a Kabul
Il ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan spalanca la strada a una guerra di religione: uno scenario da evitare con tutte le nostre forze.
La posta a Kabul
Il ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan spalanca la strada a una guerra di religione: uno scenario da evitare con tutte le nostre forze.
Il ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan spalanca la strada a una guerra di religione: uno scenario da evitare con tutte le nostre forze.
Kabul non è Saigon. Le immagini fotografano la storia e consentono accostamenti, ma dietro le due tragedie ci sono politiche e conseguenze assai diverse. Il ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan è stato a lungo chiesto (negli Stati Uniti coinvolgendo tre presidenze, in continuità) come artificiale richiesta di pace e superficiale pretesa d’estraneità. Ora che il ritiro consegna i suoi frutti si procede con sottofondo emozionale. Temo che la sconfitta non stia nell’umiliazione, ma in quel che viene dopo.
Noi italiani abbiamo perso, durante la missione, 53 vite. Abbiamo avuto 723 feriti. Abbiamo speso 8 miliardi. Noi occidentali dobbiamo moltiplicare ciascuna di queste cifre. Abbiamo illuso, per venti anni, la popolazione civile che ha creduto in quell’operazione: la nostra che ha visto cacciati i distruttori di monumenti e i complici di attentati e morti in casa nostra; la loro che ha scommesso su una vita civile passabilmente normale.
Andandocene tradiamo quanti hanno con noi collaborato, come già gli americani avevano fatto con i curdi. Un costume che si pagherà altrove e nel tempo. Tutto questo non solo non chiude il bilancio, ma ne è la parte minore. La politica – specie quella estera, specie quella di potenza geopolitica – deve essere capace di freddezza ed è freddamente che si vede quanto le cose siano messe peggio.
La guerra di religione era quello che volevano i fondamentalisti, quel che voleva Osama Bin Laden (protetto dai talebani e giustamente accoppato in Pakistan, dove si nascondeva dopo che i suoi complici avevano perso il controllo del Paese), quel che cercava Abu Bakr al-Baghdadi con il suo Stato islamico, a cavallo di Siria e Iraq. Non era quello che volevamo noi e mai dovremo concederlo, perché sarebbe il loro trionfo e la nostra fine. Noi non dovremo mai concedere nulla a una sorta di guerra ai musulmani e quanti, da noi, la reclamano o la immaginano, fingono d’essere i più fieri paladini d’Occidente, essendone i potenziali becchini. La nostra superiorità sta proprio nel non fare guerre di religione, nel vivere in Stati laici.
Per questo la giusta guerra al fondamentalismo richiede conoscenza, distinzione fra wahabismo e nazionalismo, rapporto continuo con Stati e organizzazioni islamiche che sanno di essere nel mirino del fondamentalismo. A Kabul succede una cosa feroce, che era stata sventata in Siria e Iraq: s’accinge a insediarsi un rigurgito d’emirato, sostenuto dal mondo islamico che continua a volere regolare i conti con gli islamici non anti-occidentali. Quella è la sconfitta più pericolosa.
Da noi s’è sentito ripetere, fin oltre la nausea: non si esporta la democrazia con le armi. Vivendo in Italia o in Germania si dovrebbe essere più cauti, nel sostenerlo. Ma non era la democrazia, il punto, bensì la sicurezza e l’equilibrio. Purtroppo, ed è questa la falla culturale con cui fare i conti, quando si mandano le truppe dove non si è capaci di capire poi si favoriscono alleanze locali con soggetti corrotti e impresentabili, utili solo a far vivere la reazione contro di loro.
Saigon fu un disonore, ma con fredde ed efficaci misure di limitazione del danno geopolitico. A Kabul non si vedono. È roba che non si delega e non si improvvisa. Ed è questo il fronte, ora.
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