Mani che non si sono mai più intrecciate, bocche che non si sono potute sfiorare nemmeno una prima volta, una moltitudine di coppie mai nate per colpa del Covid.
Le rigidissime regole sugli spostamenti internazionali e oltre 5mila km di acqua salata nel mezzo hanno spezzato i sogni di migliaia di aspiranti coppie miste che vivono tra l’Italia e l’America latina.
Alcune si sono conosciute in viaggio, altre sono figlie di quegli amori cresciuti in Rete, molti dei quali marchiati da pregiudizi perché si nutrono di attenzioni come un mazzo di fiori sullo schermo di un cellulare.
So di che parlo, perché da 10 anni sono sposata con un ragazzo colombiano conosciuto a Barranquilla: sì, proprio quella città che ha dato i natali alla cantante Shakira. Il colpo di fulmine, la passione travolgente, la voglia di stare insieme e un oceano a dividerci.
Ricordo la mestizia di quei giorni, il terrore che potessero negargli il visto turistico che gli avrebbe aperto le porte dell’Italia.
Ci vollero quasi tre mesi, un numero impressionante di fogli, perché l’Ambasciata di Bogotà gli rilasciasse quel foglietto sul passaporto.
Furono momenti disperanti perché sapevamo che la nostra felicità sarebbe dipesa dalla discrezionalità di un intervistatore ‘mascherato’ dalla coltre nera di un vetro oscurante. Avevamo diversi amici che si erano visti negare la possibilità di raggiungere l’Europa pur avendo tutte le carte in regola e per cui l’unica soluzione fu quella di volare al contrario, ovvero dall’Italia alla Colombia, contrarre matrimonio e tornare insieme nel Belpaese.
Oggi ai colombiani non è più richiesto il visto turistico ma la situazione, causa Covid, non è meno sconfortante per chi vive un amore lontano.
Sul sito della Farnesina si trovano le regole di viaggio per chi arriva dall’estero; ogni Paese appartiene a una categoria di rischio e la Colombia, come molti altri Stati del Sudamerica (Brasile a parte) rientra tra quelli del gruppo E, rinominato “Resto del mondo”. Ciò significa che non è possibile viaggiare per turismo ma solo per necessità, come nei casi di lavoro, studio e ricongiungimento.
Una regola scriteriata afferma però che una coppia per potersi riabbracciare debba dimostrare con foto, mail, ricevute di hotel, di stare insieme da almeno un anno.
Come si misura l’amore? Per intensità o durata? O per numero di volte che si è prenotato una stanza di albergo? A quale ordalia aggrapparsi per dimostrare la bontà del proprio cuore?
Quando mio marito mi raggiunse in Italia eravamo fidanzati da appena tre mesi e dopo sei mesi dal nostro primo incontro convolammo a nozze. Dieci anni dopo siamo ancora qui, con due bambine di 9 e 4 anni e mezzo. Mia suocera, 73 anni, è un’altra vittima di quegli abbracci mozzati a causa della pandemia. Non vede il figlio – divenuto nel frattempo cittadino italiano – e le nipoti da oltre due anni e non è difficile immaginare la quantità di progressi fatti dalle bambine di cui non avrà mai memoria. Questa settimana ha un biglietto da Bogotà per Milano, con scalo a Madrid. Può contare su una doppia dose di vaccino cinese – quello del programma internazionale Covax – ma ciò non basterà a farle scampare il doppio tampone, a cui seguirà la quarantena di dieci giorni una volta in Italia.
Dieci anni dopo, di nuovo quella sensazione: la montagna di scartoffie burocratiche da tenere in valigia, i gruppi Telegram a caccia di esperienze dirette di chi ci è già passato e ne è uscito vittorioso.
E poi quel brivido lungo la schiena, di quando leggi che la sorella di quella ragazza colombiana, in Italia ormai da tanti anni, è stata rispedita a casa dagli ispettori aereoportuali di Bogotà già tre volte, in una guerra di sentimenti tanto al chilo, dove una sorella vale meno di una nonna.
Ma questo chi può stabilirlo, davvero una legge? Io certamente no.
di Ilaria Cuzzolin
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