Il generale McMaster, già consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump, ha definito la precipitata ritirata americana da Kabul un «tragico errore» che poteva e doveva essere evitato. Ha ovviamente ragione. Biden ha assunto convintamente la paternità politica di questa mossa, che resta tuttavia figlia delle scelte del suo predecessore, che decise di negoziare la resa americana direttamente con i talebani, a Doha. Il prezzo che l’Occidente potrà dover pagare per questa scelta americana, di fatto bi-partisan, rischia di essere elevato.
Il primo ministro pakistano, Imran Khan, ha detto che gli afghani si sono finalmente liberati «delle catene della schiavitù» verso una cultura a loro aliena, che è poi la nostra. I generali pakistani, formalmente alleati e finanziati dagli americani, hanno sempre mantenuto buone relazioni con i talebani e anche fornito per anni asilo discreto a Osama bin Laden.
La scacchiera del “grande gioco”, in corso da secoli per l’egemonia in Asia centrale, ha dunque pochi tasselli bianchi e neri ma piuttosto ‘cinquanta sfumature di grigio’. Gli inglesi, da sempre pragmatici in politica estera, hanno saputo lasciare nel sub-Continente tracce profonde della loro cultura, e con l’indipendenza dell’India son riusciti a conservare il Commonwealth britannico.
Gli americani, oscillanti tra pragmatismo economico e manicheismo culturale, si sono destreggiati con minore abilità. Non sappiamo se la ventennale presenza occidentale in Afghanistan lascerà tracce positive nella regione, ma sappiamo che la nostra cultura ‘aliena’ oggi ci impone – come ha detto il generale Petraeus, al comando in Afghanistan sotto Obama – «l’obbligo morale» di offrire asilo a chi ci ha aiutato, ha condiviso la nostra cultura ‘aliena’ e oggi rischia una fine tragica.
E qui l’Europa, di fatto del tutto marginale nel “grande gioco” in Asia centrale, può fare la sua parte, restando ben attenta a distinguere fra l’asilo politico dovuto a chi ora sogna nella cultura ‘aliena’ e le inevitabili migliaia di aspiranti rifugiati economici. È un’operazione che richiederebbe intelligenza politica e destrezza esecutiva, e dunque l’opposto di quello che l’Occidente ha saputo fare nella tragica exit strategy da Kabul, come il pessimismo della ragione ci impone oggi di constatare.
di Ottavio Lavaggi
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