Il governo Draghi e la fiducia della Camera dei deputati sulla riforma della giustizia. Una non notizia d’agosto, che però ne nasconde di vere e potenzialmente destabilizzanti su cui è opportuno ragionare.
La natura stessa del compromesso raggiunto dal presidente del Consiglio – mediando e cedendo almeno in parte alle richieste di bandiera del suo predecessore Giuseppe Conte – denuncia la domanda di fondo. A che gioco sta giocando il M5S e a Draghi è convenuto accettarlo, sia pur in minima parte?
Il Movimento, per evitare l’implosione e dare tempo all’ex capo del governo di assumerne il pieno controllo, non può esistere senza una partecipazione attiva, anche se volutamente ‘rumorosa’, all’esecutivo. Nello stesso tempo, deve marcare il territorio e concedere qualcosa alle anime ribelliste che non hanno ceduto alla tentazione della grande diaspora grillina. Quante siano lo si può valutare dal numero di assenti o astenuti sui voti politicamente più delicati.
Una fronda ondivaga, mai uguale a sé stessa, umorale e variabile come il M5S di oggi.
Questo dissidio interno ha caratteristiche psicologiche precise: per molti della prima ora è dura accettare la normalizzazione e ancora di più il ridimensionamento.
Una mina vagante per Mario Draghi, che a sua volta ha bisogno dei voti del M5S in vista della riforma del fisco e della concorrenza.
Obiettivi enormi d’autunno, impossibili da raggiungere in un clima di guerriglia perenne. Si può, come noi, apprezzare il lavoro del presidente del Consiglio ma sarebbe folle far finta di non vedere i rischi del compromesso, che è il sale della politica purché non diventi esercizio sfiancante.
Non c’è, del resto, solo il M5S da tener d’occhio: in un inevitabile effetto domino, la Lega non può accettare concessioni senza chiederne a sua volta. Sia pur in forme completamente diverse, vive problemi interni da non sottovalutare.
Sui vaccini, è cronaca di questi giorni, i governatori più ‘pesanti’ – Zaia e Fedriga in testa – si sono rumorosamente smarcati dal leader. Messaggio chiaro: insistendo su una strada ambigua, Salvini si sarebbe ritrovato da solo. Sarà un caso, l’ex ministro dell’Interno ha riscoperto l’antico e sempre amato dossier migranti, piuttosto che insistere su un crinale pericoloso per la sua leadership.
A valle di tutto ciò, ultima tessera del domino, il Partito democratico osserva inquieto e teme di restare scoperto su tutti i temi di maggior presa popolare. Tre debolezze evidenti, che non necessariamente rendono più forte Mario Draghi. Un paradosso che andrebbe affrontato prima di settembre ma che quasi certamente resterà a incombere su governo e Paese.
Perché a partiti senza strategia conviene più una debolezza determinante che una forza irrilevante. Purtroppo.
di Fulvio Giuliani
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