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Tanti depositi, pochi prestiti, troppe partecipazioni che non rendono

L’evoluzione della Cdp da soggetto finanziatore delle infrastrutture e degli investimenti a gestore di partecipazioni.

Tanti depositi, pochi prestiti, troppe partecipazioni che non rendono

L’evoluzione della Cdp da soggetto finanziatore delle infrastrutture e degli investimenti a gestore di partecipazioni.

Tanti depositi, pochi prestiti, troppe partecipazioni che non rendono

L’evoluzione della Cdp da soggetto finanziatore delle infrastrutture e degli investimenti a gestore di partecipazioni.
L’evoluzione della Cdp da soggetto finanziatore delle infrastrutture e degli investimenti a gestore di partecipazioni.
Con la legge del 2003 si è trasformata la Cassa depositi e prestiti in società per azioni a totale partecipazione statale, per avere una forma giuridica più conforme a logiche di mercato che non si conciliano più con un regime pubblicistico. Tuttavia la trasformazione in una holding formalmente privata ma a capitale pubblico ci riporta all’immagine dei vecchi enti di gestione delle partecipazioni statali, alimentando dubbi circa l’effettiva volontà di abbandonare il ruolo di Stato-gestore per passare a quello, più potente ed efficace, di Stato-regolatore. Cdp si è evoluta nel corso degli anni, a partire dalla sua lontana istituzione, nel 1850, dentro il Regno di Sardegna. Il cuore dell’attività, ovvero la sua ragione istitutiva, è il prestito e la garanzia alle imprese e agli enti pubblici per la realizzazione di infrastrutture e opere di interesse generale, usando il risparmio postale. Con la riforma del 2003 si è consentito alla Cassa di investire nel capitale sociale di società o fondi operanti nel settore infrastrutturale. Per fare ciò Cdp si è dotata di vari veicoli societari. Con la legge del 2015 a Cdp è stata attribuita la facoltà di attivare ulteriori iniziative d’investimento in caso di fallimento del mercato. Infine, con il sopraggiungere dell’emergenza Covid-19 si è introdotta la possibilità di erogare finanziamenti diretti, possibilmente insieme al sistema bancario, per soddisfare esigenze di liquidità di breve termine.

Guardiamo ai numeri degli ultimi 10 e 15 anni, per analizzare l’effetto delle riforme.

L’utile di Cdp nel 2006 ammontava a 2,052 miliardi e quello del 2020 è pari a 2,774 miliardi, ovvero pari a un incremento del 35% in 15 anni. Per fare qualche raffronto guardiamo cosa è successo nel frattempo attorno al mondo Cdp: l’utile di Enel è passato da 3 miliardi del 2006 a 5,1 miliardi del 2020; Poste è passata da 379 milioni di utile del 2006 a 1,2 miliardi nel 2020. Guardiamo anche a una banca d’affari italiana, Mediobanca, in questi giorni sotto i riflettori perché alcuni importanti azionisti sono scontenti della sua redditività e di quella di Generali, da essa controllata: Mediobanca è passata da un utile di 80 milioni nel 2006 a un utile di 600 milioni nel 2020 e Generali è passata da 1,2 miliardi a 1,74 miliardi nel 2020, che è pur sempre un incremento del 45%. Il dividendo di Cdp nel frattempo è passato da 2,1 euro per azione a 6,5 euro, pari a un pagamento dell’utile agli azionisti dell’80%. Mediobanca è ferma al 70%. I dipendenti di Cdp, nel frattempo, in dieci anni sono passati da 400 a 1.000. Il Roe, ritorno sul capitale, si mantiene invece su ottimi livelli, attorno al 10% circa, grazie al forte dividendo sborsato. Negli anni però i crediti verso la clientela sono passati dal 37% al 26% dell’attivo, mentre è salito il peso delle partecipazioni rispetto all’attivo. Dunque si presta poco e si partecipa molto.

Non vi è dubbio che la profittabilità di Cdp, nella sua nuova veste di banca d’affari o holding di partecipazioni, sia modesta e molto ciclica.

Ovvero, gli utili risentono fortemente dell’andamento del ciclo economico domestico, passando dai 2,7 miliardi del 2010 agli 890 milioni del 2015, tornando ai 2,77 miliardi di oggi. Questo significa che il dividendo oggi pagato da Cdp è destinato a scendere non appena il ciclo economico dovesse rivedere una flessione. La politica di partecipazioni messa in atto in questi anni è variata da quote del 9% in Telecom Italia (dopo che lo Stato l’aveva privatizzata nel 1997), a quote in Webuild (società di costruzione del gruppo Salini), a partecipazioni in alberghi di vario genere, dalla Val d’Aosta al Baia degli Achei in Calabria, a Villa Igiea di Palermo e recentemente si parlava del Borgo Ignazia nel Salento. Dunque, seguendo la logica dei numeri, viene meno la natura di soggetto finanziatore delle infrastrutture e degli investimenti e ha preso sempre più forma il ruolo di gestore di partecipazioni, per altro con capacità evidentemente sotto i livelli di mercato. Perché se si acquisissero partecipazioni in società strategiche in difficoltà, che poi si ricollocano sul mercato, il compito della Cassa sarebbe ben assolto. Se invece si finisce per acquisire prevalentemente partecipazioni in società poco redditizie e non strategiche, allora fa bene il nuovo governo a ridurne il perimetro rapidamente. Anche perché partecipazioni poco redditizie e molto impegnative sottraggono capitali importanti alle infrastrutture, una delle principali necessità del nostro Paese e la prima ragione d’essere della Cassa stessa. Come ha detto il presidente Draghi nel suo discorso d’insediamento, «il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati attentamente».   Di Bancor

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