
Vanessa e quello che amore non è
Vanessa e quello che amore non è
Vanessa e quello che amore non è
Di storie come quelle di Vanessa Zappalà, uccisa a 26 anni dall’ex fidanzato che da mesi la perseguitava, tante ne abbiamo lette e sentite. Di uomini come Antonino Sciuto, 38 anni, che non accettava la fine di quell’amore – tanto da trasformarsi prima in persecutore, poi in omicida e infine in suicida – ne abbiamo visti altri.
Al di là della questione giuridica, del fatto che nonostante le ripetute denunce, nonostante un arresto, l’unica misura fosse quella del divieto di avvicinamento, esiste anche un altro tema. Che è quello culturale. Perché sempre ci sarà la follia violenta, quella che la legge deve punire e possibilmente provare a fermare prima che diventi omicida.
Ma il punto è anche un concetto di relazione che, nonostante corra l’anno 2021, sembra in tanti casi tornare a essere quello legato al possesso. Come se l’identità di ciascuno dentro la coppia venisse annullata: e allora se tu mi lasci io non sono più io, e non posso permetterti di essere altro che non sia un pezzo di me.
Saremmo l’Occidente evoluto e progressista, ma dietro questo tipo di ragionamenti non c’è tanto di diverso rispetto al burqa imposto alle donne nei Paesi islamici. Fa tutto parte di un modo di concepire i rapporti che sembra pericolosamente guardare all’indietro invece che avanti. E su cui forse sarebbe bene interrogarsi, perché è sinonimo anche di un’incapacità di gestire i sentimenti e i fallimenti. Come se secoli di storia non avessero insegnato a distinguere l’amore dall’esercizio del potere e del controllo.
di Annalisa Grandi


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