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Il macigno di Bucha

Larissa e Vasyl ci raccontano come sono riusciti a sopravvivere nel luogo in cui il Male è emerso dalle viscere della terra materializzandosi nell’occupazione rascista
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Bucha – Guidandoci per le strade della città martire dell’Ucraina, Larissa e Vasyl ci raccontano come sono riusciti a sopravvivere nel luogo in cui il Male è emerso dalle viscere della terra materializzandosi nell’occupazione rascista. «Il papà è sparito. Non c’è più. Non mangiamo da una settimana, beviamo solo acqua. Guarda cosa stanno facendo. Hanno ucciso un uomo davanti agli occhi di mia figlia e sparato al ginocchio a un suo amico di 15 anni, dicendogli che avrebbero ucciso anche lui. Siamo barricati dentro un sotterraneo: i russi dicono che nessuno uscirà vivo di qui»: questo è soltanto uno dei messaggi vocali che abbiamo avuto modo d’ascoltare.
 
Molte altre voci singhiozzanti registrate in quei momenti trasudano il terrore vissuto a Bucha. «Al checkpoint hanno fatto passare solo le prime due auto. Dalle altre vetture incolonnate hanno fatto scendere tutte le bambine e le hanno stuprate. Poi le hanno prese a calci, dicendoci che ora potevamo evacuare»: questo è invece il racconto di uno dei pochi superstiti che sono riusciti ad abbandonare la città nei tre giorni in cui era stato concesso farlo. «Per sfuggire a quella barbarie, qualcuno ha persino pensato d’avvolgere le donne con la pellicola o negli abiti impermeabili per poi nasconderle dentro il letame, nelle stalle» racconta Vasyl. Quando gli chiediamo se qualcuno abbia tentato d’opporre resistenza, veniamo a sapere che diversi coraggiosi si sono resi artefici di gesta eroiche: «La mattina dell’8 marzo i russi hanno invitato i civili a uscire per rifornirsi in uno dei negozi depredati della città: qualche ora dopo hanno fatto quel che volevano delle donne. Imbracciato il fucile, un mio vicino di casa ha iniziato a sparare in direzione degli occupanti. I loro cecchini hanno risposto al fuoco e siamo riusciti a salvarci prima che gettassero una granata. Sappiamo che un altro ragazzo è riuscito a farne fuori tre».
 
Bucha oggi è ormai quasi completamente ricostruita. Il suo sindaco Anatoly Fedoruk s’è prodigato subito affinché ogni muro di questa città trasmetta visivamente un messaggio positivo e di rinascita al cuore sia dei sopravvissuti che di coloro che non l’hanno mai vista. Scorrendo le foto della città distrutta, chiediamo a Larissa e Vasyl come i russi abbiano potuto intenzionalmente deturpare durante la loro occupazione un luogo già tanto bello prima. La risposta giunge poco prima di salutarci da un tweet del consigliere presidenziale ucraino Anton Herashchenko, che leggiamo insieme a loro: «I russi vogliono distruggere il nostro passato e il nostro futuro. Non abbiamo altra scelta fra la vittoria e l’estinzione. Se non ci fosse il popolo ucraino su queste terre, non ci sarebbero la lingua, la cultura e la memoria storica ucraina. Ecco perché questa guerra è esistenziale e il nostro
dovere è vincerla».
Qualche ora prima, a margine della conferenza su quella che l’Onu s’ostina a definire “Ukraine Crisis”, il presidente della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite Erik Møse dichiarava che «le Nazioni Unite non hanno ancora prove sufficienti per riconoscere i crimini della Russia in Ucraina come genocidio». Soddisfatto, il propagandista rascista Vladimir Solovyev puntualizzava sul primo canale russo che «nessun soldato russo farebbe mai cose del genere». Come evidenziato ieri dal ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock, quante Bucha e Mariupol’ serviranno ancora per comprendere la necessità di riformare dall’interno il Consiglio di sicurezza dell’Onu?
Di Giorgio Provinciali

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