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La mia anima è nelle mie mani

Il caso del tenente Dimitry Vasilets che ha rifiutato di uccidere gli ucraini
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La mia anima è nelle mie mani

Il caso del tenente Dimitry Vasilets che ha rifiutato di uccidere gli ucraini
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La mia anima è nelle mie mani

Il caso del tenente Dimitry Vasilets che ha rifiutato di uccidere gli ucraini
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Il caso del tenente Dimitry Vasilets che ha rifiutato di uccidere gli ucraini
Il rapporto si apre con le parole: «Io, il tenente anziano Dmitry Vasilets, sono un militare delle forze armate della Federazione Russa. Vorrei attirare l’attenzione sul fatto che sono anche un essere umano e un cittadino». Inviato lo scorso febbraio in Ucraina, i superiori gli avevano detto che avrebbe preso parte solo a manovre di addestramento. Rimasto sconvolto dopo essersi reso conto che il suo Paese aveva lanciato un’invasione, ha atteso cinque mesi prima di ottenere un permesso di 15 giorni. Sino ad allora non ha ucciso nessuno, ma ha cominciato a interrogarsi sul futuro per poi decidere di rifiutarsi di combattere gli ucraini. Dmitry Vasilets è rimasto orfano della madre quando aveva tre anni e dieci anni dopo ha perso anche il padre. «Quando era vivo – racconta – mi ha insegnato a fare del bene e ad aiutare gli altri. Era davvero un modello per me. Avevamo la nostra casa con un orto e animali da fattoria. A volte andavo in giro con i miei amici e lui si presentava al mercato con un sacco di angurie: “Vieni e porta una sorpresa per tutti!”. Mi ha dato così tanto e gli sono davvero grato». Il padre era un poliziotto e Dmitry stesso ha scelto la strada dell’accademia militare, da dove è uscito laureato cum laude, potendo così scegliere come sede di servizio Pechenga, a Nord della regione di Murmansk. In quattro anni ha svolto il suo dovere senza incorrere in un solo rimprovero. I suoi commilitoni lo ricordano ancora come una persona che «eseguiva qualsiasi ordine senza indugio», mettendo sempre il servizio al di sopra delle esigenze personali. Nei primi mesi di guerra Dmitry teme di morire, ma a maggio qualcosa cambia: Maxim Belanchik e Aldar Soktoev, suoi amici intimi, vengono uccisi. Smette di pensare a sé stesso e inizia a non indossare il giubbotto antiproiettile. Nei 15 giorni del primo congedo visita le tombe degli amici defunti e incontra le loro famiglie. Ad agosto firma un rapporto in cui dichiara il rifiuto di tornare nella zona di combattimento. In quel periodo l’atto è censurabile solo con il congedo “disonorevole” dall’esercito. Nel frattempo viene varata la norma che non consente più il congedo “a domanda”, per cui gli viene imposto di tornare al fronte. Il 28 settembre Dmitry ribadisce il suo rifiuto in un nuovo rapporto, ma otto giorni prima la Duma ha varato un’altra norma che criminalizza il rifiuto di obbedire agli ordini militari. Per questo adesso deve affrontare l’accusa di disobbedienza davanti a un tribunale militare, con la prospettiva di finire in una colonia penale almeno per tre anni. Ecco le sue parole raccolte dai siti indipendenti in lingua russa “Meduza” e “Novaya Gazeta”: «Non ha senso uccidere le persone. Non servirà a nulla, moltiplicherà solo la sofferenza e la distruzione, peggiorando la situazione. Dovremmo combattere la rabbia dentro di noi, invece del nemico. Avevo una scelta e l’ho fatta. È meglio andare in prigione che tradire sé stessi e la propria umanità. Non sarei in grado di dire a me stesso “Stavo solo eseguendo gli ordini” perché non giustificherebbe nulla. La mia anima è nelle mie mani». Onori al tenente Dmitry Vasilets. Di Maurizio Delli Santi

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