Il Kazakistan è ora un Paese in fiamme, con decine di decessi e migliaia di feriti tra i manifestanti ma anche con 12 morti e 300 feriti tra le forze di sicurezza. La protesta è dilagata ovunque, e non solo per l’aumento del Gpl.
Le agenzie parlano del Kazakistan come di un Paese in fiamme, con decine di decessi e migliaia di feriti tra i manifestanti ma anche di 12 morti e 300 feriti tra le forze di sicurezza. Un poliziotto è stato decapitato dalla folla inferocita. La protesta è dilagata ovunque, e non solo per l’aumento del Gpl.
È diventata di fatto una rivolta politica al grido di «Via il vecchio!», in riferimento all’81enne Nursultan Nazarbajev, amico di Putin, il “padre della nazione kazaka”. Benché nel 2019 abbia ceduto la presidenza al delfino Kassym-Jomart Tokajev, Nazarbajev è rimasto il vero detentore del potere dietro le quinte, rimanendo leader del partito dominante Nur Otan (“Patria luminosa”) e capo del potente Consiglio di sicurezza nazionale.
Dietro le parvenze di un Paese stabile, con una economia solida grazie alle risorse energetiche – petrolio e uranio in particolare – e ai bitcoin di cui accoglie le principali agenzie di riferimento, si è celata una società caratterizzata da un’elevata corruzione e da fortissime diseguaglianze sociali.
Un clima di contestazione nel Paese si era già palesato in altre manifestazioni di protesta, che seppure circoscritte eslprimevano gravi tensioni per i bassi salari e le condizioni disumane dei lavoratori, specie nel settore minerario. Da qui i segnali di una crisi più generale del consenso popolare nei confronti della vecchia leadership filorussa, autocrate e distante dai bisogni della popolazione.
Il modello kazako è in sostanza quello adottato dalla vicina Russia di Putin, che qui ha rivelato le sue fragilità, specie per l’ampiezza della forbice delle diseguaglianze: la popolazione non considera più accettabile il sacrificio di diritti e libertà in cambio di promesse di stabilità e standard di vita confortevoli, che ora risultano appannaggio solo di pochi ricchi magnati. Questa affinità con il modello politico e sociale russo è un dato da tenere ben presente: non a caso Mosca ha subito percepito il timore che la protesta possa diffondersi, con sollevazioni analoghe a quelle accadute in Ucraina e Bielorussia, specie ora che in Russia i prezzi alimentari sono in continuo aumento, l’inflazione supera l’8% e l’intelligence teme il rigurgito di una contestazione per ora sommersa.
Il presidente Kassym-Jomart Tokajev, in carica dal 2019 con un percorso diplomatico anche alle Nazioni Unite, ha cercato di riprendere il controllo promettendo riforme e facendo dimettere il governo. Per attenuare le proteste ha inoltre assegnato l’incarico di premier al giovane tecnocrate Alikhan Smajlov, meno omologato alla vecchia leadership filosovietica. Ha quindi ordinato lo stato di emergenza, rilevando anche l’incarico di capo del Consiglio di sicurezza di Nazarbajev. Di fronte all’aggravarsi delle contestazioni, Tokajev non ha però potuto fare a meno di consigliarsi con Putin.
Subito dopo, la narrazione ufficiale è diventata che gli scontri contro le forze di sicurezza sono fomentati da gruppi terroristi e anche da miliziani afghani, per cui, data la «minaccia terroristica a opera di agenti esterni», è stato annunciato l’intervento della Csto, l’organizzazione del trattato di sicurezza collettiva che riunisce in un’alleanza militare Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizstan, Tajikistan e, ovviamente, Russia.
Lo ha confermato il presidente dell’alleanza, il premier armeno Nikol Pashinyan, il quale ha tenuto a precisare che l’invio di «forze di pace collettive» sarà per un «tempo limitato per stabilizzare e normalizzare la situazione nel Paese», minacciata da «interferenze esterne». Al Cremlino probabilmente qualcuno starà ricordando come il crollo dell’Unione Sovietica sia iniziato con le proteste popolari in Polonia, un Paese ai confini dell’impero come oggi lo è il Kazakistan.
di Maurizio Delli Santi
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Tag: proteste
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