Cosa cambia dopo l’attacco israeliano all’Iran. Parla Greta Cristini, analista geopolitica e reporter
Attacco israeliano all’Iran: “Ma il vero obiettivo di Tel Aviv è indebolire Hezbollah e arriva a un regime change. È una scommessa che non può essere vinta nel brevissimo periodo”
La risposta tanto attesa (e temuta) da parte di Israele all’attacco iraniano del 1° ottobre è arrivata, ma paradossalmente il rischio di una ulteriore escalation sembra essere scongiurato da molti. Ad essere colpiti, infatti, sono stati solo obiettivi militari e non siti nucleari o infrastrutture petrolifere, come peraltro aveva chiesto dagli Stati Uniti. Proprio Washington è stata informata in anticipo dell’operazione, con una telefonata dal ministro della Difesa israeliano, Gallant, all’omologo Austin, illustrando preventivamente i piani di azione. Insomma, il coordinamento c’è stato, tanto che alla vigilia dell’intervento militare gli stessi Usa avevano dispiegato i propri F16 di stanza in Germania, pronti a eventuali interventi. Questa volta, dunque, la pressione americana esercitata da settimane sembra aver avuto effetto: «Sicuramente la risposta israeliana, giunta dopo oltre 20 giorni, dimostra che c’è stata una trattativa molto intensa tra Washington e Tel Aviv, non senza conflittualità, come dimostrato dall’ultimatum statunitense alla fornitura di armi a Israele, se questo non avesse permesso l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza. L’amministrazione Usa ha cercato di alzare la voce e persuadere Israele a seguire le proprie indicazioni per evitare una ulteriore escalation», osserva Greta Cristini, analista geopolitica e reporter, esperta di Medio Oriente, già avvocata anticorruzione negli Stati Uniti.
«A prescindere dalle raccomandazioni di Washington però Israele non perde di vista il proprio obiettivo principale, cioè l’annichilimento dell’asse della resistenza, creato dall’Iran fin dagli anni ’80. Nonostante disponga di forze tecnologicamente avanzate, è pur sempre un Paese piccolo con risorse e un esercito limitati e al momento ha molti fronti aperti (a Gaza, in Libano, in Cisgiordania ma anche con gli Houthi), senza dimenticare il coinvolgimento di Iran e Siria nel rifornimento a Hezbollah.
Se il botta e risposta si ferma qui, con un attacco del genere Israele segnala di non voler entrare in guerra aperta con l’Iran per concentrarsi sulle operazioni di terra ai suoi confini», osserva Cristini. In una nota la Casa Bianca ha parlato di «autodifesa». L’attacco mirato, durato circa tre ore e condotto in tre riprese, ha avuto come obiettivi alcune basi dei pasdaran e impianti per la produzione missilistica. D’altro canto Teheran da un lato rivendica il diritto alla propria difesa ma dall’altra, e tramite un mediatore straniero, avrebbe fatto sapere che questa volta non sarebbe intenzionato a rispondere a sua volta all’attacco. Avrebbe anche definito ufficialmente l’operazione israeliana come «debole»: un messaggio soprattutto rivolto alla propria opinione pubblica. «Minimizzare la portata dei danni, sia da parte dei funzionari iraniani sia tramite la stampa ufficiale, serve per far passare il messaggio che non ci sia bisogno di una rappresaglia o comunque di una reazione sproporzionata – conferma l’analista – È un escamotage, soprattutto in un momento di empasse per l’Iran, dovuto a una crisi di credibilità sulla propria capacità di deterrenza. D’altro canto è in corso un dibattito interno tra la componente religiosa, guidata dall’ayatollah Khamenei, che in passato di era pronunciato con una fatwa (editto religioso) contro il programma nucleare, e quella militare dei pasdaran, che rappresentano la seconda generazione e sono molto più bellicisti: loro vorrebbero invece portare avanti il programma nucleare, che peggiorerebbe inevitabilmente i rapporti con l’Occidente».
La tensione nell’area resta comunque molto alta con attacchi israeliani anche a postazioni missilistiche in Siria e Iraq e con lo scontro in Libano. Se la pressione americana per una risposta moderata ha avuto successo, con un intervento ritenuto “chirurgico”, resta difficile pensare di chiudere a breve lo scontro per aprire una fase diplomatica, nonostante Anthony Blinken sia tornato a Washington dopo l’11esimo viaggio in Medio Oriente con l’impegno alla riapertura dei negoziati. «Dubito che Israele intenda arrivare a un negoziato a breve – osserva l’analista – L’obiettivo è duplice: accerchiare e interrompere passaggi e rifornimenti di armi dall’Iran agli Hezbollah tramite Siria e Iraq (da qui gli attacchi), ma anche agevolare a un regime change, un cambio di equilibri politici interni al Libano, indebolendo e possibilmente estromettendo Hezbollah dal governo. Colpendo l’arsenale missilistico dei miliziani, che è superiore a quello delle forze regolari libanesi, si mira a far perdere credibilità a Hezbollah nella capacità di resistere a Israele. La scommessa è di riuscire a dimostrare alle altre fazioni libanesi come sunniti, cristiani, ecc…, che Hezbollah è meno influente come attore interno, in modo da agevolare una rivisitazione politica in ottica più filo occidentale. È una scommessa, ripeto, occorre attendere per capire se Tel Aviv riuscirà a vincerla».
di Eleonora Lorusso
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