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Le orchestre di Auschwitz

La musica nei campi di concentramento poteva essere vita o morte. Ad Auschwitz nacquero molte orchestre, una anche tutta al femminile. Dovevano saper allietare le feste alcoliche dei nazisti come scandire le marce dei compagni verso le camere a gas. 
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Le orchestre di Auschwitz

La musica nei campi di concentramento poteva essere vita o morte. Ad Auschwitz nacquero molte orchestre, una anche tutta al femminile. Dovevano saper allietare le feste alcoliche dei nazisti come scandire le marce dei compagni verso le camere a gas. 
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Le orchestre di Auschwitz

La musica nei campi di concentramento poteva essere vita o morte. Ad Auschwitz nacquero molte orchestre, una anche tutta al femminile. Dovevano saper allietare le feste alcoliche dei nazisti come scandire le marce dei compagni verso le camere a gas. 
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La musica nei campi di concentramento poteva essere vita o morte. Ad Auschwitz nacquero molte orchestre, una anche tutta al femminile. Dovevano saper allietare le feste alcoliche dei nazisti come scandire le marce dei compagni verso le camere a gas. 
Tutti abbiamo nella mente le crude immagini  filmate o fotografate dalle truppe liberatrici raffiguranti lo stato in cui i prigionieri vivevano, o meglio sopravvivevano. Ciò che colpisce, quando si visita un campo di concentramento, è il silenzio quasi irreale, di sospensione; una  situazione che non si sarebbe mai verificata in quei giorni, non solo per le urla, le voci, i rumori di una vita sospesa, ma anche per un elemento che spesso viene messo in secondo piano in questo oceano di atrocità: la musica I campi di concentramento ne erano semplicemente immersi, così come la vita dei prigionieri. Ma contrariamente a quello che di primo acchito si potrebbe pensare, per via dei noti effetti benefici che quest’arte può avere, la musica era per la stragrande maggioranza dei prigionieri un ulteriore elemento di tortura Scandiva ogni momento della giornata, senza sosta: la sfiancante routine di lavoro, con la partenza al mattino e il ritorno al campo la sera, gli appelli come le punizioni e le esecuzioni. Ai detenuti veniva imposto d’imparare canti in tedesco perché potessero intonarli in coro durante i lavori forzati – sfiancati dalle ore dalla fatica e dal freddo – così da rendere impossibile qualsiasi comunicazione tra di loro. La musica faceva parte di quel processo di alienazione e annientamento della persona che era alla base di ogni azione sui prigionieri. Perfino durante le esecuzioni la scelta delle musiche non era casuale.  È stato ricostruito che nel luglio del 1942, dopo un tentativo di fuga fallito, il prigioniero polacco Hans Bonarewitz fu portato al patibolo con la canzone “Aspetterò sempre il tuo ritorno”. Una delle foto più celebri scattate dai membri delle SS, ritrovate poi nei campi, raffigura proprio quel momento. Altrettanto celebre l’aneddoto secondo cui alcuni detenuti comunisti furono costretti a scavare la propria stessa tomba cantando l’Internazionale. Gli esempi, purtroppo, sarebbero moltissimi.  Appare incredibile ma ad eseguire i brani, quando non venivano cantati direttamente dai detenuti, erano delle vere e proprie orchestre.  Ma la musica poteva anche significare vita in certi casi. Fin dall’apertura dei primi campi di concentramento i soldati tedeschi presero l’abitudine di selezionare un piccolo numero di musicisti tra i numerosi, che da ogni parte dell’Europa, arrivavano nei campi. Lo scopo era di farne una o più orchestre che suonassero ad ogni momento ufficiale della vita in detenzione. Questi musicisti suonavano ininterrottamente, in ogni condizione atmosferica e solo ed esclusivamente musica tedesca selezionata. Chi fosse stato scoperto ad eseguire o cantare canzoni non autorizzate rischiava la vita. Saper suonare uno strumento, far parte di un’orchestra, poteva dare maggiori speranze di sopravvivere. Una di queste divenne celebre perché unica nel suo genere: un’orchestra tutta al femminile di 47 elementi. Fu creata per volere delle SS durante la primavera del 1943 nel campo di Auschwitz e diretta, dopo il suo arrivo al campo, da Alma Rosé, figlia di Arnold Rosé, celebre primo violino dell’Orchestra Filarmonica di Vienna e fondatore del ‘Quartetto Rosé’. E proprio il violino è diventato lo strumento simbolo di Auschwitz, uno dei pochi che potesse essere trasportato al momento della deportazione. Alcuni di questi strumenti, sopravvissuti alla Shoah, ciascuno con la sua storia drammatica, sono stati ritrovati nel corso del tempo e, restaurati dal liutaio israeliano Amnon Weinstein, oggi girano il mondo suonati in concerti-evento per mantenere viva la Memoria. Sono tornati alla vita, anche per chi li ha imbracciati, per l’ultima volta, anni fa. di Federico Arduini

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