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Museo nazionale Leiden mostra Kemet

Nero come l’Egitto, di orgoglio e di rabbia

Un museo olandese ha rivisitato l’antica civiltà in chiave afrocentrica, scatenando l’ira del Cairo. La mostra fa più propaganda che storia? Sì
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Nero come l’Egitto, di orgoglio e di rabbia

Un museo olandese ha rivisitato l’antica civiltà in chiave afrocentrica, scatenando l’ira del Cairo. La mostra fa più propaganda che storia? Sì
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Nero come l’Egitto, di orgoglio e di rabbia

Un museo olandese ha rivisitato l’antica civiltà in chiave afrocentrica, scatenando l’ira del Cairo. La mostra fa più propaganda che storia? Sì
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Un museo olandese ha rivisitato l’antica civiltà in chiave afrocentrica, scatenando l’ira del Cairo. La mostra fa più propaganda che storia? Sì
Leiden, Paesi Bassi – Luci stroboscopiche, musica da night club. E papiri e faraoni, sotto la pesante lente del black pride. Benvenuti a “Kemet. L’Egitto nell’hip-hop, jazz, soul & funk”, la nuova mostra del Museo nazionale delle Antichità di Leiden. Che tuttavia, d’ora in avanti, le piramidi le vedrà col binocolo: Il Cairo ha accusato gli archeologi olandesi di «distorcere la storia del Paese» e li ha espulsi dagli scavi di Saqqara dopo oltre cinquant’anni di proficua collaborazione. La notizia ha fatto il giro del mondo, dalla “Bbc” al “New York Times”. Com’è possibile che l’Egitto si sia infuriato a tal punto da trasformare qualche teca impertinente in un affare di Stato? «La cosa che fa più male è che chi ha deciso non ha nemmeno visitato l’esposizione» dichiarano i curatori. E allora siamo andati a vederla noi. Premessa: le sale permanenti del museo, seppur sconosciute ai più, sono un fiore all’occhiello dell’egittologia. Templi intatti, corredi funerari, tombe ricostruite alla perfezione. Ci si perde volentieri un pomeriggio. Poi si sale di un piano. E tutt’a un tratto sembra di piombare in un trip psichedelico. Altra premessa: non ci sarebbe niente di male se l’intero percorso raccontasse l’influenza esercitata dall’antico Egitto sui generi musicali afroamericani, dalla cosmesi all’estetica fino all’immaginario delle canzoni. Anzi, è pure interessante riscoprire Aretha Franklin vestita da Nefertiti, il rapper Nas nei panni di Tutankhamon o i geroglifici sui vinili di Nina Simone. Ma la mostra degenera, a caccia di un astruso legame inverso. Sin dal nome: Kemet, che in lingua egizia indica la stessa civiltà fluviale e significa nero – tombola! Peccato che i pannelli si contraddicano, prima rivendicando con orgoglio il carattere etnico del termine per poi specificare che l’origine del binomio nazione-colore sia puramente geologica: nera era infatti la terra fertile lungo il Nilo. Lo spettacolo continua, caotico, fra accuse all’Occidente di appropriazione culturale e propaganda afrocentrica: l’antico Egitto viene sfoggiato come culla identitaria del Continente, più che crocevia di tre mondi. Come prova vengono esposte alcune pitture murali della fase nubiana, che evidenziano il ruolo ricoperto dall’omonimo popolo subsahariano in varie dinastie. Subito dopo, salto di 10-15 secoli, Cleopatra. Per cui l’Egitto moderno ha appena chiesto due miliardi di risarcimento a Netflix. Ecco: secondo il museo di Leiden, «gli archeologi non possono determinare il colore della sua pelle. Ma le ricostruzioni facciali suggeriscono una mascella compatibile con una persona dell’Africa meridionale». Al piano di sotto, due ritratti del tardo periodo tolemaico: bianchi e castani, l’aria perplessa. Meglio che Il Cairo non abbia visto nulla. Altrimenti, più dell’esilio, dichiarava guerra. Di Francesco Gottardi

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