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Maus di Art Spiegelman, elaborazione della Shoah

Itzhak Avraham ben Zeev Spiegelman detto Art, figlio di un sopravvissuto ad Auschwitz, dal 1972 decide di elaborare questo trauma grazie alla sua arte grafica. È l’inizio del percorso che lo porterà a comporre il romanzo a fumetti “Maus”

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Maus di Art Spiegelman, elaborazione della Shoah

Itzhak Avraham ben Zeev Spiegelman detto Art, figlio di un sopravvissuto ad Auschwitz, dal 1972 decide di elaborare questo trauma grazie alla sua arte grafica. È l’inizio del percorso che lo porterà a comporre il romanzo a fumetti “Maus”

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Maus di Art Spiegelman, elaborazione della Shoah

Itzhak Avraham ben Zeev Spiegelman detto Art, figlio di un sopravvissuto ad Auschwitz, dal 1972 decide di elaborare questo trauma grazie alla sua arte grafica. È l’inizio del percorso che lo porterà a comporre il romanzo a fumetti “Maus”

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Itzhak Avraham ben Zeev Spiegelman detto Art, figlio di un sopravvissuto ad Auschwitz, dal 1972 decide di elaborare questo trauma grazie alla sua arte grafica. È l’inizio del percorso che lo porterà a comporre il romanzo a fumetti “Maus”

La storia della Shoah è quella di un inferno creato sulla Terra, una vera e propria fabbrica di morte la cui memoria è quasi tanto dolorosa quanto l’averla vissuta. Ancora peggio se quest’epica di dolore scorre nella linfa della propria famiglia, come quella degli Spiegelman. Itzhak Avraham ben Zeev Spiegelman detto Art, il figlio di un sopravvissuto ad Auschwitz, dal 1972 decide di elaborare questo trauma grazie alla sua arte grafica. È l’inizio del percorso che lo porterà a comporre il romanzo a fumetti “Maus” (topo, in tedesco) circa due decenni dopo, imponendosi nel panorama culturale occidentale. Un percorso davvero peculiare, per un grafico trentenne che fino a quel punto aveva soprattutto lavorato come disegnatore corporate. Per la Tops ha infatti sviluppato i Wacky Packages (parodie destinate ai più piccoli di prodotti statunitensi di largo consumo) e,  perfino quelli che noi in Italia abbiamo conosciuto come gli Sgorbions. Campagne comunicative ben distanti e molto più leggere di un graphic novel sulla Shoah.

Il suicidio della madre nel 1968, anche lei sopravvissuta allo sterminio, aveva già portato Art a un confronto coi fantasmi familiari. Un suo disegno dell’epoca – una sorta di poster/illustrazione/splash page fumettistica – raffigura la madre coi polsi tagliati nella vasca e le scritte “Depressione causata dalla menopausa” e “È stato Hitler”. Il padre Vladek, ferito dall’abbandono della sua fragile moglie, distrugge tutti gli appunti sulla prigionia vergati dalla donna. Così il figlio si trova in pratica costretto a intervistarlo in un percorso di catarsi che lo impegnerà stabilmente per dieci anni (dal 1980 al 1991) nella pubblicazione di “Maus”. Per dare un contesto editoriale alla storia, Art approfitta della fondazione con la moglie Françoise Mouly del magazine fumettistico “Raw”, che diventerà una delle riviste di riferimento negli Stati Uniti. Un successo che sorprende lo stesso autore, ma che nasce dalla forte carica antiretorica del fumetto.

Intanto la scelta rappresentativa è quella degli animali antropomorfi, con collegamenti che possono essere ritenuti persino banali: gli ebrei sono topi, i tedeschi gatti, i polacchi dei maiali e gli statunitensi dei cani. Preda, predatore, ignavi, guardiani. La narrazione però procede come un esercizio privo di moralismi, sulla falsariga del carattere pratico e spesso cinico del padre di Art. Vladek – vero protagonista di “Maus” – accompagna il figlio in un viaggio della memoria tra guerra e internamenti, dimostrandogli costantemente come le loro sensibilità siano assai diverse. Se Art è spesso indignato dal comportamento di chi non era nazista ma partecipava lo stesso allo sterminio o distoglieva lo sguardo, Vladek è il testimone di un vecchio mondo in cui l’egoismo era visto come la normalità. Uno stridore tra visioni opposte che si avverte anche nell’essenziale e spezzato tratto del disegno: sebbene nel testo si autoraffiguri come una persona sorpresa dall’abiezione umana, Art fa procedere la storia con una sobrietà che richiama molto l’atteggiamento disilluso di suo padre. Un mix di scelte consapevoli di storytelling che hanno fatto vincere per la prima (e unica) volta il prestigioso premio Pulitzer a un’opera fumettistica.

Purtroppo Vladek non ha potuto vedere questo riconoscimento al suo dramma. Il padre di Art è infatti morto nel 1982, lasciando dietro di sé le registrazioni delle interviste fatte con suo figlio. Un rapporto che è dunque continuato per diversi anni nel lavoro di trasformazione delle memorie raccolte in fumetto, riparando così alla distruzione di quelle lasciate dalla moglie.

di Camillo Bosco

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