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Capodanno in corsia

Mi chiamo Carlo Molinari e sono un medico. Quando questa storia è avvenuta, venticinque anni fa, la notte di Capodanno, ero appena approdato in un grande ospedale di Roma
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Capodanno in corsia

Mi chiamo Carlo Molinari e sono un medico. Quando questa storia è avvenuta, venticinque anni fa, la notte di Capodanno, ero appena approdato in un grande ospedale di Roma
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Capodanno in corsia

Mi chiamo Carlo Molinari e sono un medico. Quando questa storia è avvenuta, venticinque anni fa, la notte di Capodanno, ero appena approdato in un grande ospedale di Roma
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Mi chiamo Carlo Molinari e sono un medico. Quando questa storia è avvenuta, venticinque anni fa, la notte di Capodanno, ero appena approdato in un grande ospedale di Roma

Mi chiamo Carlo Molinari e sono un medico. Quando questa storia è avvenuta, venticinque anni fa, ero appena approdato in un grande ospedale di Roma e non immaginavo cosa mi avrebbe riservato il futuro. Sognavo di riuscire un giorno a coniugare la mia professione con la passione per la scrittura e la musica, ma sembrava una cosa lontana. E invece oggi, dopo qualche romanzo e centinaia di serate passate a suonare con il mio gruppo, questa è la mia quotidianità. Ma in quella notte di Capodanno di fine anni Novanta ero ‘soltanto’ un urologo di turno come medico di guardia. Una fine d’anno un po’ diversa da quelle che avevo trascorso negli anni precedenti, a essere onesto.

Tutto sembrava scorrere tranquillamente, almeno fino a quando ricevo una chiamata dal Pronto soccorso. Al mio arrivo, il medico di urgenza mi porta dal paziente. È un ragazzino di etnia Rom in preda a dolori lancinanti. I suoi reni non stanno funzionando a causa di alcuni calcoli che li hanno ostruiti. È uno scricciolo e sta provando un dolore troppo grande per un corpo così minuto. Mi dicono che con lui c’è la madre, accompagnata da due poliziotti. Non importa perché quegli uomini in divisa sono lì. Così come non mi interessa sapere se, da qualche parte, ci sia il padre di quel ragazzo.

Bisogna operare e anche in fretta. Ma io, che nasco come endoscopista, fino a quel momento avevo lavorato soltanto come assistente e non avevo mai eseguito un intervento in prima persona. Figuriamoci poi su un bambino. Qui però la cosa è diversa. Il collega del Pronto soccorso, senza mezze misure, mi dice: «…Guarda che è urgente e qui lo puoi fare solo tu!». In un istante mi vengono i brividi, sento la temperatura che sale e i conati che, incoercibili, si manifestano. Ma devo prepararmi perché stanno allestendo la sala operatoria. Quando mi avvicino al tavolo chiudo per un attimo gli occhi, raccolgo tutta la forza che ho e inizio l’intervento. Le mie mani sono ferme e sembrano non avvertire la tensione che invece attraversa il mio corpo, come se fossero governate da qualcuno che non sono io. Ce la faccio. Appena termino l’operazione sento come un flusso di adrenalina che mi attraversa da capo a piedi. Realizzo che quel ragazzino l’ho salvato.

Venticinque anni dopo, mentre sto lasciando l’ospedale per tornare a casa per l’ultimo dell’anno, vedo un giovane dottore che sta per iniziare il suo turno. Sembro io, in quella notte ormai lontana. Anche lui è uno dei tanti medici e operatori per cui il nuovo anno nasce in corsia. Quegli eroi invisibili che, mentre il mondo festeggia, lottano per salvare un essere umano o alleviano la sofferenza di chi sta male, che vedono vite che arrivano e altre che, purtroppo, vanno. Sono i miei colleghi, siamo noi.

Alla mezzanotte mi arriva un messaggio: «Buon anno Dottore». È del ragazzo che operai in quel lontano 31 dicembre. Ormai si è fatto uomo. È ancora un mio paziente, anzi no…è un mio amico. E allora buon 2024 anche a te, amico mio.

Testimonianza raccolta dagli autori Stefano Faina e Silvio Napolitano 

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