Memorie inossidabili, “Amarcord” e quella notte degli Oscar di 50 anni fa
Dal palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles, la voce di Susan George pronuncia queste sei parole: “The winner is Italy, for ‘Amarcord'”
Memorie inossidabili, “Amarcord” e quella notte degli Oscar di 50 anni fa
Dal palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles, la voce di Susan George pronuncia queste sei parole: “The winner is Italy, for ‘Amarcord'”
Memorie inossidabili, “Amarcord” e quella notte degli Oscar di 50 anni fa
Dal palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles, la voce di Susan George pronuncia queste sei parole: “The winner is Italy, for ‘Amarcord'”
Los Angeles, 8 aprile 1975. Dal palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles, la voce di Susan George pronuncia queste sei parole: «The winner is Italy, for “Amarcord”». È l’annuncio che consegna a Federico Fellini il suo quarto Oscar per il miglior film straniero. Mentre l’inno di Mameli accompagna la vittoria, l’Italia esulta. Fellini no: è rimasto in Italia, fedele alla sua diffidenza verso le celebrazioni, concentrato già sul suo prossimo film, “Casanova”. A ritirare la statuetta c’è il produttore Franco Cristaldi, mentre il regista riminese conferma ancora una volta la sua volontà di lasciare parlare soltanto le immagini.
Sono passati cinquant’anni da quella notte e “Amarcord” è divenuto molto più di un film: è un modo di dire, un lessico familiare, una parola che contiene l’intero universo felliniano, citata ovunque, anche sul palco dell’ultimo Sanremo. Racconta un’Italia perduta, una provincia immaginata e deformata, sospesa tra sogno e memoria, tra carne e poesia. Un’epopea intima e collettiva che si snoda attraversa l’infanzia, la scoperta del sesso, la scuola, il cibo, il fascismo, la morte. “Amarcord” – che in dialetto romagnolo significa “mi ricordo” – è una confessione nostalgica che diventa universale. Eppure il suo percorso creativo fu tutt’altro che lineare.
Il titolo stesso cambiò più volte: da “Il Borgo” a “Romagna”, da “Viva l’Italia” a “Hammarkörd”. Persino una mezza bestemmia (“Osciadlamadona”) fu tra le opzioni, scartata perché troppo blasfema. Alla fine vinse appunto “Amarcord”, talismano linguistico capace di evocare e raccontare da solo l’intero film. Una scelta felice che si è impressa nella cultura popolare, al pari di altri fellinismi come “La dolce vita” o “Paparazzo”.
Il progetto nacque nel 1972 e oggi il Fellini Museum di Rimini conserva materiali rarissimi di quell’epoca: trattamenti, scalette, dattiloscritti. Reperti che ci permettono di ricostruire la genesi di un’opera che ha saputo trasformare Rimini in una nuova Itaca, «un luogo dell’anima» come l’ha definita Tonino Guerra, co-autore della sceneggiatura. Il cast fu in gran parte composto da attori non professionisti, scelti da Fellini per la loro umanità e le loro facce vere. Solo Pupella Maggio e Ciccio Ingrassia erano affermati professionisti. Il ruolo del padre di Titta sarebbe potuto andare a Nereo Rocco, il celebre allenatore del Milan. Fellini lo aveva visto in tv, ne era rimasto folgorato e volle incontrarlo, ma il “Paron” declinò l’offerta: «Il mio cinema è il campo» disse. La parte andò così ad Armando Brancia, perfetto nella sua interpretazione.
Dentro “Amarcord” c’è tutto un mondo: le suore e le tabaccaie, la Gradisca e lo zio Teo che urla dall’albero «Voglio una donnaaaaa!». Scene rimaste nella memoria collettiva, come quella del transatlantico “Rex” (girata per ultima) o il pranzo durante il quale lo zio Pataca, interpretato da Nando Orfei, ingurgita 34 cosce di pollo. Alcune sequenze – come quella del ‘cinese’ o dello spurgatore di pozzi neri – furono tagliate. Altre, come quella della tabaccaia, vennero censurate in Russia per via del seno che si intravedeva. Ma “Amarcord” ha soprattutto resistito al tempo, rendendo la memoria un’esperienza cinematografica, scolpita nella mente e nel cuore del pubblico.
Fellini spiegò il successo del film con poche parole: «Quando uno racconta con sincerità il proprio mondo, senza voler insegnare nulla, parla a tutti». E “Amarcord” parla davvero a tutti, perché quel borgo, quel miscuglio di sogni e ricordi appartiene in fondo a ciascuno di noi.
di Stefano Faina e Silvio Napolitano
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