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Revelè racconta “O Mar ‘O Mar”: “Nata come un richiamo di notte”

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Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Revelè sul suo singolo d’esordio “O Mar ‘O Mar”

Revelè racconta “O Mar ‘O Mar”: “Nata come un richiamo di notte”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Revelè sul suo singolo d’esordio “O Mar ‘O Mar”

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Revelè racconta “O Mar ‘O Mar”: “Nata come un richiamo di notte”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Revelè sul suo singolo d’esordio “O Mar ‘O Mar”

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È uscito lo scorso venerdì 18 luglio “O Mar ‘O Mar”, il brano d’esordio del cantautore partenopeo Revelè. Distribuito da Artist First e prodotto da Mario Meli (già al fianco di artisti come Annalisa, Alfa e Clementino), il singolo si è fatto spazio tra radio e piattaforme digitali, portando con sé il profumo del mare e il peso leggero della nostalgia.

“‘O Mar ‘O Mar” è un ritorno alle origini, una confessione intima, una preghiera cantata sottovoce a quella Napoli che vive nella memoria e nel cuore. Nato dalla lontananza – fisica ed emotiva – dalla sua terra, il brano è un dialogo con ciò che salva: il mare, i ricordi, l’identità.

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Revelè per farci raccontare cosa si nasconde dietro questo inizio musicale e cosa ci aspetta nel suo percorso artistico, tra musica, scrittura e teatro.

In “O Mar ‘O Mar” racconti un distacco forte da Napoli, una ferita che diventa scrittura. Com’è nata questa canzone?

Sono nato a Napoli e ho vissuto tra Scampia e Melito. A 13 anni mi sono trasferito a Bergamo con mia madre e mia sorella, dopo la perdita prematura di mio padre. È stato uno strappo viscerale, come essere staccato dal grembo della mia terra. Mio padre era un grande appassionato di musica americana, mentre mia madre ascoltava soprattutto musica italiana. Sono cresciuto immerso in questo contrasto, che in realtà si è trasformato in una ricchezza.

Quando ci siamo trasferiti al Nord, la lontananza da Napoli è diventata un dolore silenzioso. All’inizio pensavamo che saremmo tornati spesso, magari ogni tre o quattro giorni. Ma non è andata così. La distanza è diventata reale, anche emotiva. In quel periodo ho iniziato a balbettare, probabilmente a causa dei traumi vissuti e così ho trovato rifugio nell’arte: il teatro, la musica, la scrittura. Scrivevo perché non riuscivo a parlare e scrivendo ho trovato la mia voce.

La prima bozza di ‘O Mar ‘O Mar è nata proprio in quegli anni, come un richiamo che arrivava di notte. Pensavo a Napoli e da quel dolore è nata una nostalgia che nel tempo è diventata quasi una preghiera. Chiudevo gli occhi e mi rivedevo con mia sorella sul lungomare Caracciolo, i pescatori all’alba, le pannocchie, le fritture già pronte alle sei del mattino. Tutto quel mondo mi faceva sentire a casa, anche da lontano.

Scrivere una canzone così personale è anche un atto di coraggio. Com’è stato per te mettere nero su bianco qualcosa di così intimo?

È stato come rivelarmi completamente. Infatti, il nome del mio progetto significa proprio “Rivelarsi” e ogni canzone sarà un pezzo della mia storia. Mi sono accorto che nella vita tutti indossiamo delle maschere per proteggerci. Ma nei momenti in cui mi esprimo artisticamente – scrivendo, cantando o recitando – riesco a toglierle. È lì che riesco a essere il vero me stesso.

Non è stato facile, ma oggi non potrei più farne a meno. È la mia forma di resistenza, il mio modo per restare vivo.

Sei cresciuto con influenze musicali molto diverse, tra tuo padre e tua madre. Ma oggi, da artista, a chi ti ispiri quando scrivi e componi?

Ho sicuramente assorbito molto dai miei genitori. Mio padre ascoltava Bruce Springsteen, Tracy Chapman… quella sincerità americana nel raccontare. Mia madre invece amava Elisa, Mango, Pino Daniele… l’anima della musica italiana.

Pino Daniele mi ha insegnato la verità nella voce, Mango il modo poetico e struggente di raccontare il dolore. Springsteen mi ha trasmesso la voglia di dare voce alla periferia, alla gente comune, con uno spirito quasi rock.

Crescendo mi sono avvicinato molto all’elettronica. Ho fatto il DJ per anni e ho ascoltato tanto R’n’B, pop e urban. Da Justin Timberlake a Chris Brown, passando per Michael Jackson. Le sonorità che mi porto dietro oggi sono un mix: cantautorato, elettronica, pop. Ogni emozione ha la sua musica e non voglio incasellarmi in un solo genere.

Tu parli spesso anche di teatro e scrittura. Come si contaminano questi tre mondi – teatro, musica e parola – nella tua vita artistica?

Sono tre arti che per me formano un solo corpo. Quando recito, sento la musicalità delle parole. Quando canto, vedo la teatralità del testo. Quando scrivo, immagino già una scena teatrale. È tutto collegato. Quando scrivo una canzone, nella mia mente si accendono luci, vedo mani che si sfiorano, luoghi, dettagli. È come se raccontassi a me stesso un film che ancora non esiste. Teatro, musica e scrittura si nutrono a vicenda: sono le tre parti del mio cuore artistico.

L’artwork del singolo ha un’estetica molto particolare. Puoi raccontarci il significato dell’immagine e del giubbotto ricamato?

Il giubbotto è stato disegnato da Lucie Giselle, una stilista che ha voluto rappresentare la mia storia attraverso simboli legati alla tradizione napoletana. Ha usato il concetto dell’ex voto, quei doni che un tempo si offrivano per grazia ricevuta, con un tessuto tipicamente partenopeo.

Il colore richiama il cuore ma anche l’oscurità, come una linea sottile tra dolore e amore. Il mio volto riflesso nel vinile è un simbolo di introspezione: sto guardando dentro di me, cercando me stesso. È un invito alla rivelazione personale, ma anche al cambiamento.

Hai parlato del palco con grande emozione. Che tipo di spettacolo ti immagini in futuro? Cosa rappresenta per te esibirti dal vivo?

Il palco è il mio luogo naturale. È lì che sono nato artisticamente, lì dove riesco davvero a comunicare. Vorrei costruire uno spettacolo che non sia solo un concerto, ma un racconto teatrale: con luci, narrazione, atmosfera.

Immagino un inizio con un sipario rosso che si apre, come se ogni serata fosse l’inizio di una storia. E con una canzone come questa, che parla di intimità e nostalgia, mi vedo lì, seduto, con gli occhi chiusi, a raccontare.

Sogni di calcare grandi palchi, come Sanremo o magari festival italiani più popolari?

Sanremo è un sogno, sì. Come artista, sognare è fondamentale, è ciò che ti spinge a migliorare. Ma vorrei arrivarci restando fedele a me stesso, non seguendo logiche che snaturano la mia identità.

Mi piacerebbe partecipare anche a grandi eventi popolari come la Notte della Taranta, o esibirmi in stadi e piazze. Ma non disdegno nemmeno i piccoli locali, i club con 100 o 150 persone. Lì puoi guardare il pubblico negli occhi, toccare le emozioni con mano.

Immagino un giorno una mia canzone cantata da una piazza intera, da uno stadio. Sarebbe come un grande abbraccio collettivo. E per un napoletano, sarebbe anche un modo per riunire simbolicamente il popolo, dare voce a chi è lontano da casa, e dire: “Siamo insieme, anche attraverso un ricordo.”

di Federico Arduini

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