Brigate rosse: terroristi a processo dopo mezzo secolo. Parla l’ex magistrato Guido Salvini
Le parole del dottor Guido Salvini, un passato da magistrato con importanti inchieste fondamentali per la storia d’Italia
Brigate rosse: terroristi a processo dopo mezzo secolo. Parla l’ex magistrato Guido Salvini
Le parole del dottor Guido Salvini, un passato da magistrato con importanti inchieste fondamentali per la storia d’Italia
Brigate rosse: terroristi a processo dopo mezzo secolo. Parla l’ex magistrato Guido Salvini
Le parole del dottor Guido Salvini, un passato da magistrato con importanti inchieste fondamentali per la storia d’Italia
Le parole del dottor Guido Salvini, un passato da magistrato con importanti inchieste fondamentali per la storia d’Italia
Leggete queste parole: «Nessuno vuole mandare in galera nessuno, anche perché tecnicamente non sarebbe possibile, trattandosi di ottuagenari. Si tratta solo di restituire la verità dei fatti a una persona cui è stato ucciso il padre, con uno spirito del tutto lontano da qualsiasi venatura vendicativa. Della sparatoria di Cascina Spiotta si sa tutto, meno quel nome». A parlare è il dottor Guido Salvini, un passato da magistrato con inchieste fondamentali per la storia d’Italia, dalla strage di piazza Fontana al terrorismo di sinistra, alla criminalità finanziaria, allo scandalo Telecom-Sismi, al calcio scommesse. Salvini è ora avvocato di parte civile (con il collega Nicola Brigida) di Bruno D’Alfonso, figlio di Giovanni, appuntato dei carabinieri ucciso a Cascina Spiotta, vicino ad Acqui Terme, nel giugno del 1975.
In una delle azioni di autofinanziamento le Brigate Rosse avevano rapito Vallarino Gancia – figlio dell’imprenditore della nota casa vinicola – e lo tenevano prigioniero in quella cascina dell’Alessandrino. I carabinieri ci erano arrivati grazie a un semplice tamponamento. Racconta Salvini: «Massimo Maraschi era un militante brigatista appena entrato in clandestinità. Stava raggiungendo la cascina con una Fiat 124, quando tamponò una Fiat 500. Aveva voluto pagare subito i danni, senza fare denuncia all’assicurazione, sborsando 70mila lire, una somma non proprio esigua per l’epoca. Un atteggiamento sospetto, tanto da convincere il tamponato a segnalarlo ai carabinieri, che rintracciarono facilmente la sua auto. Una volta fermato, Maraschi si era subito dichiarato prigioniero politico. Portato in caserma, aveva vuotato il sacco indicando il posto dove Gancia era prigioniero». I carabinieri avevano raggiunto quindi il luogo del sequestro, dove s’era sviluppato un conflitto a fuoco in cui avevano perso la vita Mara Cagol – anche lei brigatista e moglie di Renato Curcio – e l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, mentre il tenente Umberto Rocca ci aveva rimesso un braccio e un occhio. L’ostaggio venne liberato. Ma l’altro brigatista, che con la Cagol teneva prigioniero Gancia, era riuscito a dileguarsi nel bosco.
Di chi si trattava? Chi era l’uomo che uccise l’appuntato D’Alfonso? Nessuno ha mai saputo dare una risposta al figlio Bruno. «Ben undici impronte sono riconducibili a Lauro Azzolini, altre cinque appartengono al brigatista Pierluigi Zuffada» spiega Salvini. Nel corso delle nuove indagini disposte in seguito alla denuncia di Bruno D’Alfonso, durante un’intercettazione telefonica si sente Azzolini dire che sì, era stato lui a sparare contro i carabinieri e a scappare mentre Mara Cagol veniva colpita a morte. Con Azzolini vennero rinviati a giudizio anche Renato Curcio e Mario Moretti in quanto responsabili dell’organizzazione brigatista che aveva deciso il rapimento: un dato di fatto riscontrabile anche negli stessi libri dei due capi terroristi, dove si parla appunto di quell’episodio della storia brigatista.
«Il signor Bruno D’Alfonso è mosso da autentico spirito di verità» osserva Guido Salvini. «È un abruzzese senza malizia, una brava persona. Negli incontri che abbiamo avuto non ha mai speso una parola di astio né mostrato propositi vendicativi. Gli basta sapere come sono andate le cose, com’è morto suo padre, chi lo ha ucciso. È una storia che, nonostante sia passato mezzo secolo, si sarebbe potuta chiudere attorno a un tavolo se ci fosse stato un atteggiamento collaborativo da parte degli imputati e dei loro avvocati. Così non è stato e quindi si andrà a giudizio». Prima udienza, il 25 febbraio 2025.
di Pino Casamassima
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