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Garlasco, molto più di un ragionevole dubbio

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Nel caso di Garlasco l’inizio di nuove indagini a distanza di 18 anni sconvolge quell’illusione di apparente equilibrio che la condanna di Alberto Stasi aveva diffuso

Garlasco

Garlasco, molto più di un ragionevole dubbio

Nel caso di Garlasco l’inizio di nuove indagini a distanza di 18 anni sconvolge quell’illusione di apparente equilibrio che la condanna di Alberto Stasi aveva diffuso

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Garlasco, molto più di un ragionevole dubbio

Nel caso di Garlasco l’inizio di nuove indagini a distanza di 18 anni sconvolge quell’illusione di apparente equilibrio che la condanna di Alberto Stasi aveva diffuso

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In un Paese progredito la giustizia è istituzione irrinunciabile, di essenziale centralità: garantisce l’osservanza delle regole, prescindendo da ogni distinzione di razza, sesso, religione, appartenenza politica, essendo quindi uguale per tutti. Il sistema delle norme disciplina la convivenza civile: allorquando viene violato, si instaura un processo finalizzato a ristabilire l’equilibrio sul quale si incentra il rapporto tra i cittadini. È quindi essenziale che questo meccanismo – delicato e complesso – sia per quanto possibile informato alla perfezione delle risposte: ogni errore non soltanto perpetua la violazione della regola ma crea ulteriori squilibri, induce allarme, suscita risentimento e diffonde sfiducia.

Ciò premesso, dobbiamo in ogni caso realisticamente considerare come la perfezione sia un modello difficilmente attuabile: l’errore è parte dell’agire umano. Ovviamente neppure la giustizia sfugge a questa logica e quando ciò avviene si diffonde lo sconcerto: la responsabilità di chi è stato condannato con sentenza definitiva viene sovvertita. L’illecito, che era stato risolto nella convinzione di avere punito l’autore della violazione della regola, torna a essere un fatto irrisolto. Questa incertezza produce dolore: in chi riteneva di avere superato la fase della sofferenza; in chi è stato punito erroneamente; in chi si trova ora al centro del teorema accusatorio.

È quanto sta avvenendo con riferimento alla morte di Chiara Poggi: l’inizio di nuove indagini a distanza di 18 anni sconvolge quell’illusione di apparente equilibrio che la condanna di Alberto Stasi aveva diffuso. Difficile immaginare quali sentimenti provino i genitori di Chiara, quale possa essere la condizione dello stesso Stasi, quale sia la sofferenza di Andrea Sempio. Non meno rilevante l’effetto che si genera fra i cittadini: alla fine, induce la sfiducia nelle istituzioni. Eppure, nella consapevolezza del fatto che spesso non è possibile avere la certezza di chi sia il responsabile di un delitto, il legislatore ha introdotto una regola di giudizio finalizzata a contenere il rischio di errore: il giudice condanna se l’imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio.

È di tutta evidenza che la riapertura delle indagini consegue a due presupposti: esistono dubbi sulla responsabilità di chi è stato condannato; sono emersi elementi che potrebbero sostenere la responsabilità di un terzo. Quando le indagini non sono riuscite a fornire la prova certa della responsabilità, si deve assolvere; l’irrisoluzione del delitto è il prezzo che si deve pagare per evitare l’incertezza della condanna, suscettibile di produrre effetti ancor più gravi e dolorosi. Come non ricordare, in tal senso, altri sistemi come quello americano in cui dopo una assoluzione non si può più essere processati per lo stesso reato? A quel punto non ha più senso parlare di «oltre ogni ragionevole dubbio».

Il fatto stesso che nel caso della morte di Chiara Poggi le indagini siano state riaperte dimostra come la condanna di Alberto Stasi sia stata pronunciata nonostante la ricorrenza di un dubbio ragionevole. Un processo fondato su labili indizi non può dare certezza. La riapertura delle indagini è molto più di un ragionevole dubbio. Il che tuttavia non significa che il responsabile sia chi, a distanza di 18 anni dal fatto, viene oggi indagato: a volte un delitto può restare impunito.

di Cesare Cicorella

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