Le morti sul lavoro e i discorsi ripetuti dopo le tragedie
Le morti sul lavoro e i discorsi ripetuti dopo le tragedie
Le morti sul lavoro e i discorsi ripetuti dopo le tragedie
Se in un luogo di lavoro c’è scarsa attenzione al rispetto delle regole è facile che ciò si rifletta anche sulla sicurezza. Ma se quando l’assenza di sicurezza genera incidenti mortali e già le prime indagini mettono in evidenza irregolarità che poco hanno a che vedere con la sicurezza, ne deriva che quelle irregolarità sono molto diffuse. Con il che serve a poco promettere regole più severe, che avrebbero un senso se quelle più lasche fossero state rispettate e si fossero dimostrate inefficaci.
Una delle cose più utili, nel prevenire incidenti, è la formazione dei lavoratori. Non si tratta (soltanto) dei corsi formali, spessissimo vissuti – e non a torto – come perdite di tempo e rotture di scatole. Sia dai datori che dai lavoratori. Si tratta dell’acquisire la consapevolezza dei rischi e delle tecniche, talché si cresca in responsabilità ed esposizione ai potenziali rischi, oltre che in retribuzione, all’acquisizione di maggiori competenze. Il che ha senso se c’è stabilità del posto di lavoro. Se gli operai cambiano di continuo tutto questo diventa solo esercizio parolaio.
Nel disgraziato cantiere fiorentino – sulla cui tragedia è aperta l’inchiesta e si spera che la giustizia non si seppellisca negli anni – sappiamo già della presenza di immigrati irregolari. Non clandestini, almeno per quel che è noto, ma irregolari nel senso che almeno uno di loro aveva chiesto il permesso di soggiorno, gli era stato rifiutato e aveva fatto ricorso. Come si pensa che possa campare, pendente il ricorso? Proverà a lavorare, che è anche la migliore e più onesta delle ipotesi. Ma senza neanche la possibilità di aspirare alla stabilità e all’acquisizione di capacità. È morto. È morto da aspirante regolarizzato. E faremmo bene a sentirla come una colpa collettiva.
Perché li fanno lavorare in quelle condizioni? Intanto perché lavorare è un loro bisogno e poi perché la manodopera scarseggia e quella che c’è la si utilizza come si può. Quindi abbiamo una colpa collettiva per i lasciati appesi nella terra di nessuno dei ricorsi e ne abbiamo un’altra per non avere fatto entrare un numero sufficiente di lavoratori. Perché quelle sono mansioni svolte prevalentemente da immigrati. E se hanno fatto dei lavori edili nel vostro condominio conosco già la vostra obiezione: non prevalentemente, ma esclusivamente. Questa doppia colpa produce una sicura irregolarità in potenzialmente tutti i cantieri. E le irregolarità sono contagiose: una produce l’altra.
Occorrerebbero più controlli? Certamente. Ma se le irregolarità sono diffuse, se le regole stesse finiscono con il produrle, allora i più numerosi controlli o diventano uno strumento punitivo delle imprese o innescano un fenomeno degenerativo dei controllori. E siccome non si può mettere un controllore a controllare l’altro che controlla, non resta che puntare sulla loro responsabilità: sia per i controlli non effettuati che per quelli effettuati con gli occhi appannati. Ma questo ha un senso se si dispone di una macchina giudiziaria che funziona, altrimenti la responsabilità resta uno spauracchio. Un Paese che vara un bonus al 110%, moltiplica le aziende edili, mette sui ponteggi gente che non c’è mai stata, fino a quando finiscono i ponteggi e ci si appende per aria, non rimedia agli scompensi mandando più ispettori, perché dovrebbe prima di tutto farsi ispezionare il sistema legislativo.
Se ci tocca sentire sempre le stesse parole, al ripetersi di ogni tragedia, è perché dove l’irregolarità ha una sua regolare diffusione la pretesa della regolarità diventa o una inutile invocazione o un blocco della produzione. E a ogni morto sul lavoro muore un pezzo di civiltà del diritto e di prosperità produttiva.
di Davide Giacalone
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