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Riportare in vita i defunti tramite un’app

Sono diverse le applicazioni che permettono di ricostruire fedelmente voce e connotati di chi non c’è più. Una possibilità che ha del macabro o un’opportunità per combattere la nostalgia?  

Riportare in vita i defunti tramite un’app

Sono diverse le applicazioni che permettono di ricostruire fedelmente voce e connotati di chi non c’è più. Una possibilità che ha del macabro o un’opportunità per combattere la nostalgia?  

Riportare in vita i defunti tramite un’app

Sono diverse le applicazioni che permettono di ricostruire fedelmente voce e connotati di chi non c’è più. Una possibilità che ha del macabro o un’opportunità per combattere la nostalgia?  
Sono diverse le applicazioni che permettono di ricostruire fedelmente voce e connotati di chi non c’è più. Una possibilità che ha del macabro o un’opportunità per combattere la nostalgia?  
Nell’episodio“Be right back” di Black Mirror, una donna decide di vivere con l’avatar di suo marito morto. Un robot che parla, pensa si muove come il compagno da poco defunto, grazie alla rielaborazione dei dati sulla memoria del cellulare e del pc che in vita appartenevano al suo partner. Tutto, dall’aspetto al carattere, sono una rappresentazione di quello che era stato in vita suo marito, tanto che la protagonista decide di continuare a viverci insieme come se non nulla fosse cambiato.    Robot marito defunto   Si tratta di una storia di pura fantascienza – come lo sono tutte quelle raccontate in questa serie di straordinario successo targata Netflix –  ma in effetti la tecnologia qualcosa sta facendo per provare a riportare in vita i nostri cari che non ci sono più.  A cominciare dalla loro voce. Una startup inglese, Sonantic, si è dedicata proprio a questo aspetto: un’intelligenza artificiale analizza ore di registrato, e grazie a degli algoritmi, riesce a restituire una voce simile all’originale non solo per tonalità e timbro, ma anche perché in grado di interpretare le varie emozioni.    Di recente si è aperto un acceso dibattito sulla voce artificiale, e in particolare sull’utilizzo che ne è stato fatto in Roadrunner, il film-documentario su Anthony Bourdain, chef e divulgatore culinario morto nel 2018.  Nel documentario, infatti, l’intelligenza artificiale è stata utilizzata per far dire al protagonista tre frasi che effettivamente aveva scritto, ma che non aveva mai pronunciato.  Moltissimi hanno criticato l’accaduto, definendola una cosa inquietante e una mancanza di rispetto verso Bourdain. Inoltre, il fatto che si trattasse di una voce artificiale è emerso in un’intervista solo in un secondo momento e non è stato dichiarato nel documentario stesso, cosa inammissibile per molti, che si sono sentiti presi in giro o traditi.    “C’erano tre battute che avrei voluto sentirgli pronunciare con la sua voce, ma non esistevano registrazioni” ha dichiarato il regista di Roadrunner Morgan Neville “quindi mi sono messo in contatto con una società di intelligenza artificiale, e gli ho fornito ore e ore di girato perché me la producessero”.    Al di là della scelta autoriale poco attenta e responsabile verso gli spettatori, viene da chiedersi quanto queste tecnologie verranno utilizzate e giustificate in futuro. “Volevo fargli dire quelle battute, ne avevo bisogno per il mio documentario” possono essere motivazioni sufficienti per far “resuscitare” un morto e colmare dei vuoti narrativi in cui si potevano usare altri espedienti?    Aggrapparsi a dei ricordi, e ritrovarli uguali a quello che erano ma artificiali, quanto può aiutarci  a superare un lutto e a colmare dei vuoti?    Con Remini App e altri filtri, ad esempio, si riescono a far sorridere vecchie foto, e alcuni utenti giurano che le espressioni sono le stesse dei loro cari scomparsi.    Il fatto che la tecnologia possa restituirci qualcosa delle persone che abbiamo amato, non può farci dimenticare che non possiamo riaverle indietro. Altrimenti, penseremmo che vivere con un robot, un’intelligenza artificiale o un insieme di algoritmi sia come vivere con una persona. E sappiamo che non è così.  Del resto la serie Black Mirror, trattando di futuri distopici e convivenze con la tecnologia portate all’estremo, vuole proprio accendere i riflettori sulle numerose questioni etiche che questa pone nel nostro quotidiano.  Un esempio ne sono le sempre più comuni applicazioni che ringiovaniscono; tra queste FaceApp, che oltre a rendere più giovani ha ampliato le sue opzioni permettendo di cambiare genere o di invecchiare la foto.      Basta un semplice scatto per capire come sarai (o saresti), per cambiare completamente identità.  Ci sono anche app in cui si può sostituire il proprio viso con quello del protagonista del video. Una di queste si chiama DeepFaceLab e ti permette di segnare il goal dei rigori all’Europeo o di ballare con il corpo di Beyoncé.    Siamo abituati, dopo anni di uso di Photoshop, ad assistere a foto perfette e corpi statuari, ma con le nuove tecnologie non si tratta solo di fotoritocchi per ringiovanirsi o togliere qualche imperfezione: le nuove app e filtri ci permettono di vederci sotto altre vesti, come delle altre persone, di assumere identità, anni, genere differenti da quello attuale. Proprio quello che qualche anno fa Black Mirror dava come fantascienza, in certi casi, oggi è già realtà. Uomo avvisato…   di Sara Tonini

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