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“Lavoro solo perché devo”, così la Gen Z sta cambiando il mondo dell’occupazione

Ecco cosa accade quando il gap generazionale sfocia nel mondo del lavoro: molte aziende statunitensi sembrano restie all’idea di assumere personale appartenente alla Gen Z

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“Lavoro solo perché devo”, così la Gen Z sta cambiando il mondo dell’occupazione

Ecco cosa accade quando il gap generazionale sfocia nel mondo del lavoro: molte aziende statunitensi sembrano restie all’idea di assumere personale appartenente alla Gen Z

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“Lavoro solo perché devo”, così la Gen Z sta cambiando il mondo dell’occupazione

Ecco cosa accade quando il gap generazionale sfocia nel mondo del lavoro: molte aziende statunitensi sembrano restie all’idea di assumere personale appartenente alla Gen Z

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Ecco cosa accade quando il gap generazionale sfocia nel mondo del lavoro: molte aziende statunitensi sembrano restie all’idea di assumere personale appartenente alla Gen Z

Ecco cosa accade quando il gap generazionale sfocia nel mondo del lavoro: molte aziende statunitensi sembrano restie all’idea di assumere personale appartenente alla Gen Z. Vale la pena ricordare che diversi fenomeni si sviluppano in anticipo negli Usa, rispetto all’Europa. Secondo un sondaggio a cura della piattaforma Intelligent.com, basato su un campione di mille dirigenti d’azienda, questi ultimi si dicono per la maggior parte insoddisfatti arrivando a definire arroganti e troppo permalosi i lavoratori più giovani.

Stando ai recruiter, la Generazione Z (che comprende i nati fra il 1997 e il 2012) ignora la cultura del lavoro e non riesce a gestire il rapporto con i superiori. Emerge che circa sei aziende su dieci hanno licenziato un neolaureato assunto nell’ultimo anno, perlopiù per mancanza di motivazione o iniziativa (50%), scarse capacità comunicative (39%) e mancanza di professionalità (46%). Nove recruiter su dieci denunciano che dopo la laurea i ragazzi avrebbero bisogno di un corso ad hoc per migliorare il proprio atteggiamento sul posto di lavoro. La Gen Z delude dunque le aspettative e sembra essere vissuta con una certa ostilità da una quota degli head hunter.

I baby boomer (o anche semplicemente boomer, cioè i nati fra il 1946 e il 1964) sono cresciuti a pane e lavoro. I loro padri, dopo aver superato gli anni più bui del secolo scorso, dovevano ripartire e affermarsi: erano tempi di grande ottimismo e fermento, scanditi da una crescita economica inarrestabile. E per ‘fare carriera’ sembrava sufficiente impegnarsi. Il rapporto con il lavoro veniva vissuto in modo totalizzante e le gerarchie erano fondamentali. Nel corso degli anni, di generazione in generazione, il mercato del lavoro è notevolmente cambiato e con esso anche i desideri e le aspettative di chi è entrato a farne parte.

Anche la Gen Z vuole realizzarsi (ovvio), ma senza rinunciare al proprio tempo libero, che viene percepito come un diritto inalienabile. Il lavoro spesso diventa un mezzo ‘obbligato’ per ottenere risorse con cui coltivare le proprie passioni. I più giovani sono cresciuti in un’era dominata dalla tecnologia e dai social media, spesso ripudiano l’autorità, vogliono rompere l’ordine precostituito (questa non è proprio una novità) e crescere professionalmente in un ambiente flessibile, inclusivo e ricco di benefit.

Secondo un sondaggio svolto nel 2023 in Europa da Zety, l’elemento più caratterizzante sarebbe l’eccessivo turnover: i giovani della Gen Z cambiano lavoro a un tasso del 134%, in crescita rispetto al 2019 e nettamente superiore al 24% dei millennial e al 4% dei boomer. I datori di lavoro che fanno parte della generazione dei boomer potrebbero percepire questo aspetto come una mancanza di ‘lealtà’, ma resta innegabile che la Gen Z stia cercando di sovvertire le regole del gioco. Il benessere psicofisico per questi giovani viene prima di tutto e non dev’essere intaccato dal lavoro, che comunque ha un ruolo marginale. Allo stesso tempo viene però percepito come identitario, tanto che tendenzialmente si rifiutano di lavorare per un ente o un’impresa che non rispecchi a pieno i loro princìpi. Fra i motivi per cui sono disposti a dimettersi troviamo lo stress da troppo lavoro (41%), la discrepanza di valori rispetto all’azienda (35%) e l’infelicità causata dal lavoro (33%).

In Italia ci sono circa 9 milioni di individui che fanno parte della Generazione Z. Entro il 2030 rappresenteranno un terzo della forza lavoro. La sfida è per tutti e tutte le generazioni.

di Angelo Annese

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