Come sarebbe Sanremo nel 2333.
Anno 2333. La duplicazione era perfetta. La brezza dalle colline simulreali tesseva il mare. Le barche simulreali pettegolavano. Sartiavano. Palmeggiavano. La colonia astrale consumava il dopo tramonto senza colori. Afro, l’agente navigatore: «Atterraggio stimato fra cinque minuti…» «Agenti questo trasferimento ci porta su una colonia dove è in atto la più antica rappresentazione di musica classica dell’anno». «Potremmo dire giurassica…» ironizzava Magli, lo storico delle memorie effimere. «Grazie dei fiori nel blu dipinto di blu zingara per elisa adesso tu occidentali’s karma zitti e buoni» filastroccava.
«L’evento è un doppio virtuale…» perfezionava la comandante Akila, la stratega dell’incursione. «Sarà un bottino di memorie attive, pur fiaccate da quattro secoli di riproduzioni», le dita snumeravano. «Sono già prenotate dai collezionisti d’ogni mercato nero della costellazione» pregustava Sama, analista del neuroglobo per la squadra. Gli occhi stragliavano: «Sarà il malloppo più grosso della storia dei metaversi!». «I direttori d’orchestra, gli orchestrali, ma soprattutto i cantanti, impiegano centinaia di memorie connesse ciascuno… È nel retropalco che le sfileremo. Sarà una scorpacciata, agenti! Ecco i pass dell’epoca, sono validi per ogni settore… Voi puntate al back stage!» dirigeva la comandante.
«Agenti, mentre si raggiunge la colonia, vestirsi come all’epoca!» minuziosava Magli. Scarpe lucide. «Papillon, sempre strass, non muoiono mai…» «Tatuaggi, è un’edizione del XXI secolo». Zeppe bianche. Gonne varianti. Spacchi. Strascichi. Trasparenze. Scollature stellari. T-shirt. Canottiere nere. «Uomini, evitate i gessati! Giacche colorate! E nastri arcobaleno!» si eccitava Magli. Vestire gli altri è ricomporre sé stessi. Per restare nudi.
Sbarcarono. Inforcarono le bici. La strada si faceva assiepata. Gli assiepati si facevano pavoni. Le fiumane si aggregavano in ogni seno della galassia. Dicevano che gli avatar di Amadeus fossero da quelle parti. Molti di seconda mano. Nei bar sbocconcellava la voce «Checco le memorie connesse le ha lasciate a casa…». La colonia astrale respirava la serata. Come ogni volta. Gli agenti disellarono. Sgambarono. Si mischiarono. Avanzarono. S’immisero dietro le quinte.
Il palco vibrava con Domenico. La platea straniava con Lucio. La galleria ondulava di Laura. Gli schermi globanti stordivano con David. La rappresentazione abbuffava. La platea si accoccolava. La trasgressione si muoveva immobile. Trasgredire è riconquistare l’equilibrio. Gli agenti facevano incetta. Di camerino in camerino. «A migliaia, comandante! Da troppo tempo eravamo all’asciutto!…». Le memorie sono sottratte. Rapite. «Gli artisti senza più la simulrealtà delle memorie si spengono. Si dissolvono…» allibiva l’agente Hargo. La platea ammutoliva. Le musiche rantolavano. «Hanno speso i risparmi d’una vita per essere qui oggi… Mi sento crudele, comandante». La comandante Akila in fondo alla platea. In piedi. Appoggiata al muro. Aspettava il momento della vertigine. I pupazzi sarebbero scomparsi dal palcoscenico. Le luci avrebbero spento il vuoto. L’orchestra evaporata. La musica ammutolita sopra le teste acconciate. Il pubblico tramortito dalla scomparsa del nulla. Le memorie predate rubano la finzione. La finzione è sempre un furto.
«Agenti che succede? Lo spettacolo continua come se niente fosse!… Abbiamo tolto tutte le memorie, vero?!… Tutte! Confermare!». Ma il rantolo è esploso. Fa alzare le teste del teatro. La musica torna. Eterna materia divinante. L’Ariston sbraita: «… ha vinto la 382esima edizione del Festival di Sanremo!»
di Edoardo Fleischner
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