Assassini come santi o eroi
Mentre il calciatore israeliano Yehezkel veniva espulso con l’accusa di “incitamento all’odio”, Noa – rapita il 7 ottobre da Hamas – annunciava la morte di due prigionieri
| Esteri
Assassini come santi o eroi
Mentre il calciatore israeliano Yehezkel veniva espulso con l’accusa di “incitamento all’odio”, Noa – rapita il 7 ottobre da Hamas – annunciava la morte di due prigionieri
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Assassini come santi o eroi
Mentre il calciatore israeliano Yehezkel veniva espulso con l’accusa di “incitamento all’odio”, Noa – rapita il 7 ottobre da Hamas – annunciava la morte di due prigionieri
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Mentre il calciatore israeliano Yehezkel veniva espulso con l’accusa di “incitamento all’odio”, Noa – rapita il 7 ottobre da Hamas – annunciava la morte di due prigionieri
Mentre il calciatore israeliano della squadra turca di Antalya, Sagiv Yehezkel, segnava il gol del pareggio e ricordava gli ostaggi ancora tenuti dai terroristi di Hamas, Noa – una delle ragazze rapite il 7 ottobre – in un video girato e diffuso dai terroristi annunciava che due dei prigionieri mostrati domenica scorsa erano stati uccisi. I due fatti non sono avvenuti contemporaneamente ma le notizie sono state diffuse insieme. Il calciatore israeliano, che ha ricordato i prigionieri dei terroristi indicando la scritta sul polso fasciato con una benda bianca, è stato subito espulso dalla Turchia con l’accusa di «incitamento all’odio» e «di sostenere con quel gesto ripugnante i massacri contro i palestinesi». Ma mentre tutto ciò avveniva e veniva reso noto, ecco apparire in video Noa Argamani – la ragazza rapita al rave in corso a Re’ Im e portata via su di una motocicletta – che dà la notizia della morte dei due prigionieri: una sorta di gioco perverso della morte annunciata dalla stessa prigioniera. Eppure, nel Paese di Erdoğan chi incita all’odio è il calciatore israeliano mentre gli assassini sono – evidentemente – o eroi o santi. Non solo viviamo in un mondo in cui la realtà può essere uccisa dall’immagine, ma ci troviamo in una situazione in cui le cose sono distorte, manipolate, camuffate e così i carnefici diventano vittime e le vittime diventano carnefici. È un fottuto mondo complicato in cui la prima arma è la sofistica e per combatterla non è possibile minimamente abbassare la guardia dei fatti, della storia, del pensiero. Si prenda l’altro caso: l’accusa del Sudafrica, davanti alla Corte internazionale dell’Aia, nei confronti di Israele nientemeno che di «genocidio». Il popolo che è vivo o per caso o per miracolo e che nel Novecento è entrato con sei milioni di esseri umani nei forni crematori è accusato di «genocidio» per una guerra difensiva.
Le parole – diceva quel tale regista e attore italiano – sono importanti, ma in un mondo ‘sofisticato’ o non contano nulla o sono ancora più importanti e vengono usate per capovolgere, storpiare, confondere non la realtà ma qualcosa di più profondo: il suo stesso senso. Noi italiani ne sappiamo qualcosa perché a ogni piè sospinto tiriamo fuori la parola “fascismo”, con il risultato che per la troppa disinvoltura e ‘falsa coscienza’ non sappiamo più cosa si debba intendere con questo termine. Oggi questa pratica di giocare con i concetti si è appropriata addirittura della parola “genocidio” e la cosa è scandalosa perché, alla lettera, offende e strazia la memoria di popoli e genti che hanno provato sulla pelle e sulle ossa la volontà dello sterminio di massa: gli armeni, gli ebrei, gli ucraini, gli slavi, i cambogiani, i ruandesi. Il gioco disumano che si fa è quello di svalutare la volontà dello sterminio di massa (la eliminazione dell’essere-umano in quanto tale) per rovesciarla addosso a chi – gli ebrei – l’ha subita e ora si sta difendendo da atti terroristici che ancora una volta sono mossi dalla medesima volontà di sterminarlo. È davvero il mondo capovolto e costa fatica, mentale e morale, mantenere i nervi saldi e concentrarsi sui fatti e sui giudizi per non perdere il senso delle cose e delle parole di ieri, di oggi, di domani.
Le guerre a cui stiamo assistendo si muovono su due livelli: la morte degli uomini e la morte delle parole. Entrambe le drammatiche esperienze provengono dal Novecento: il secolo sterminatore dei totalitarismi. Pensare di non fare i conti con il Novecento è illusorio. Dobbiamo salvare le vite non meno della vita delle parole e del pensiero.
Di Giancristiano Desiderio
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