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Gelo demografico

Culle e teste vuote

Siamo così assuefatti al gelo che l’ennesima conferma del precipizio demografico in cui l’Italia si è allegramente lanciata di fatto non riesce a fare notizia

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Culle e teste vuote

Siamo così assuefatti al gelo che l’ennesima conferma del precipizio demografico in cui l’Italia si è allegramente lanciata di fatto non riesce a fare notizia

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Culle e teste vuote

Siamo così assuefatti al gelo che l’ennesima conferma del precipizio demografico in cui l’Italia si è allegramente lanciata di fatto non riesce a fare notizia

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Siamo così assuefatti al gelo che l’ennesima conferma del precipizio demografico in cui l’Italia si è allegramente lanciata di fatto non riesce a fare notizia

Siamo così assuefatti al gelo che l’ennesima conferma del precipizio demografico in cui l’Italia si è allegramente lanciata di fatto non riesce a fare notizia. I dati dell’Istat diffusi ieri, che certificano il secondo dato più basso di sempre quanto a neonati nel 2023 con 379mila è fra le notizie che per dovere e abitudine mista a pigrizia tutti i mezzi di informazione rilanciano, ma nell’assoluta consapevolezza che l’attenzione del pubblico sarà molto relativa. Eufemismo.

Siamo abituati a queste cifre, al tasso di fertilità via via più basso, a quell’1,2 bambini per donna (facemmo peggio solo una volta, nel 1995) che in alcune regioni non può che essere statisticamente ancora ridotto, finendo sotto quota un figlio per donna in Sardegna. Dove andiamo “alla grande“, cioè in Trentino Alto Adige, arriviamo a 1,42 in calo.

Potremmo andare avanti, ricordare che perdiamo abitanti (siamo scesi a 58,9 milioni di residenti), che diventiamo sempre più vecchi, che ci condanniamo a parlare sempre più di pensioni, assistenza e sanità. Che allegria. Una vocina da qualche parte nella testa ci ricorderà anche che dovremmo risparmiarci le polemiche lunari sugli immigrati, considerato che neppure il loro afflusso ormai riesce a equilibrare la situazione. E che senza potremmo anche chiudere bottega. Secondo i ginecologi, l’ultimo italiano – a questi ritmi – nascerà nel 2225.

Ha senso scriverlo, però, dal momento che l’assuefazione di cui sopra è pressoché totale? Chi ancora reagisce alla notizia si limita a ricordare che non ci sono le condizioni economiche e lavorative, lamenta l’impossibilità di realizzarsi per le coppie. Figurarsi pensare seriamente non tanto a “mettere su famiglia“ ma a lanciarsi nell’impresa di fare più di un figlio. 

È così, ormai anche solo provare a sostenere opinioni e sensazioni diverse ti fa apparire o un noioso e ripetitivo “Zio“ uscito da qualche ingiallita fotografia del passato o, molto peggio, un censore dei costumi, indifferente alle difficoltà, ai dubbi e alle paure dei giovani d’oggi. 

Ci sarebbe una terza via: magari siamo semplicemente spaventati dall’idea di vivere in un paese irrimediabilmente vecchio, desertificato dai suoni e dalla presenza stessa dei bambini, ridotto a rinsecchirsi come inevitabilmente si rinsecchisce una società che non sappia rinnovarsi. E come diamine possiamo rinnovarci, senza bambini oggi e ragazzi domani… vallo a capire. Se questi ultimi conteranno sempre meno per il banale motivo che saranno così pochi da interessare poco o nulla in termini politici e anche di mercato. 

Per come siamo messi, ormai, saremmo già felici che qualcuno voglia ancora parlarne senza fare spallucce e fregandosene.

di Fulvio Giuliani

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