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Lady Oscar

Lady Oscar e l’infatuazione dei giapponesi per la storia europea

Una saga appartenente alle produzioni giapponesi ambientate nella stria europea è quella conosciuta in Italia come “Lady Oscar”

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Chi pensi che l’infatuazione europea per la cultura giapponese sia a senso unico, non potrebbe essere più in errore. Come ci basta vedere il codino di un samurai per proiettarci nell’esotico e misterioso Oriente, così un pizzo e un merletto del nostro Ottocento possono mandare in sollucchero qualsiasi nipponico. Prova ne sono i costanti adattamenti di classici europei nella produzione di manga, cioè i diffusissimi fumetti giapponesi, nonché le storie originali ambientate tout court nella storia della nostra Europa. Una saga appartenente a quest’ultima casistica è quella conosciuta in Italia come “Lady Oscar” dal nome della sua protagonista o “Berusaiyu no bara” (“Le rose di Versailles”) in lingua originale.

La sua autrice Riyoko Ikeda è infatti un esempio di come neanche le nobili e antiche famiglie di Osaka (la prima capitale del Giappone) non fossero immuni da tale fascinazione verso la cultura dell’Occidente. Sua madre è figlia di una lunga stirpe di samurai e si assicura che riceva la più completa educazione possibile nell’ambito del secondo dopoguerra giapponese. Ikeda impara discipline tipiche del Sol Levante: canto, calligrafia, l’uso del koto (un tipo locale di cetra), la pittura, l’ikebana (le tecniche delle composizioni floreali) e la famosa cerimonia del tè; ma a queste arti molto legate al Giappone vengono affiancate anche quelle del pianoforte, della matematica e la stessa lingua inglese.

Quando la famiglia si trasferisce a Tokyo, Ikeda si scopre quindi una prolifica scrittrice. Il padre non condivide però la sua scelta di iscriversi alla Facoltà di filosofia né la sua adesione – per nulla passiva – alla Lega giovanile del Partito comunista giapponese. Vedendosi tagliato il mensile familiare la giovane opta dunque per una scelta che può sembrare bislacca, cioè il guadagnarsi da vivere facendo fumetti. Se oggigiorno è difficile persino per la maggior parte dei professionisti dell’ambiente sbarcare il lunario grazie esclusivamente alle storie disegnate, il Giappone a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta è tuttavia un’economia dinamica. Certo, la dieta di Ikeda prima di ricevere le prime royalties si basa su impasti di glutine di grano chiamati fu e inventati per la vita monacale, ma non le manca la perseveranza. La sua prima storia la pubblica già a vent’anni nel 1967 e il successo che le permetterà di abbandonare per sempre la dieta di fu arriva appena cinque anni dopo.

Nel 1972 “Lady Oscar” appare sulle pagine della rivista “Margaret”, ispirata da una lettura del testo biografico “Maria Antonietta – Una vita involontariamente eroica” dell’autore ebreo austriaco Stefan Zweig. Storia francese mediata dalla cultura mitteleuropea, che nella narrazione in costume ed en travesti di Ikeda si dimostra universale. Tanto che il successo delle avventure di questa donna-ufficiale francese – battezzata dal padre come un uomo (Oscar, appunto) e assegnata alla corte di Versailles all’incombere della Rivoluzione del 1789 – travalica presto i generi, arrivando all’attenzione della casa madre Shueisha.

Questo perché si tratta di una trama che parla di opposti. La protagonista è vicina alla nobiltà, ma capisce i disagi di un popolo sempre più oppresso. Se il suo lavoro le prescrive una posa virile, Oscar prova comunque a esprimere la sua femminilità. Con questo appeal narrativo, la storia compie infine il giro inverso e in Europa diventa molto popolare il suo adattamento in anime (cartoni animati). Il paradosso di una giapponese che adatta al pop uno dei periodi fondativi della nostra democrazia liberale non porta nessuno scandalo. Nel 2008 la Francia ha persino premiato Ikeda per il suo lavoro di divulgazione con la Légion d’honneur, testimoniando come anche un punto di vista apparentemente lontano possa dimostrarsi acuto e inedito nell’interpretazione di una cultura.

di Camillo Bosco

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