Sebbene le minacce sull’uso delle armi atomiche facciano più paura, non bisogna mai dimenticare che la vera triade strategica russa si basa su tre pilastri: il citato nucleare, il binomio energia-materie prime e infine la comunicazione. Spesso si tende a sottovalutare il potere della propaganda e del controllo dell’informazione ma basta pensare a quanto le agenzie di stampa e Hollywood abbiano supportato lo sforzo di politica estera statunitense a livello di immagine e promozione di determinati contenuti, a quanto la comunicazione abbia allargato i confini e le capacità operative di al-Qaeda e Daesh e, infine, di quanto la propaganda abbia costruito la mitologia politica dell’Urss prima e della Russia dopo.
La information warfare o guerra dell’informazione è una componente fondamentale nel confronto e nel conflitto tra avversari. La comunicazione è un potere non meno efficace dei proiettili o delle sanzioni economiche per colpire, indebolire o incapacitare un nemico. Nella guerra tra Russia e Ucraina – la prima raccontata in diretta minuto per minuto sui social grazie a un flusso incalcolabile di contenuti audio, video, di opinioni e di documenti dei più diversi – l’informazione è un fattore in grado di cambiare gli equilibri. Una campagna di propaganda ben strutturata ha lo scopo di fiaccare il morale del nemico, influenzare l’opinione pubblica, corrodere il rapporto di fiducia fra cittadini e istituzioni e infine inceppare i meccanismi di governabilità.
Nel gergo dell’intelligence e della guerra ibrida, operazioni di influenza tramite offensive comunicative fanno parte del ventaglio delle cosiddette ‘misure attive’, vale a dire attività specifiche dei servizi russi Svr e Gru rivolte contro i Paesi stranieri. Di recente anche l’Italia ne ha subita una: improvvisamente l’hashtag #grazieputin è entrato in tendenza su Twitter e migliaia di utenti hanno cominciato a lodare il presidente russo per la sua invasione dell’Ucraina e per tante altre cose, tutte funzionali a mostrare l’ipocrisia dell’Ue e della Nato. L’origine dell’hashtag resta tutt’ora sospetta, quasi non attribuibile e avvolta nel mistero. Parallelamente, i dibattiti online e i cinguettii più intensi e partecipativi venivano inquinati con risposte da parte di utenti sospetti (profili falsi o automatizzati, i famosi bot) che rilanciavano strali propagandistici sgrammaticati e perfino in lingua inglese.
La comprensione, tuttavia, è proprio quello che la Russia vuole evitare, gettando nebbia di guerra sullo scenario e impedendo che se ne discuta in casa, come testimoniato dall’approvazione della legge d’emergenza che vieta di parlare di invasione russa o simili, pena 15 anni di carcere. Un segno di debolezza per Mosca che, forse, comincia a temere la mobilitazione del dissenso all’interno dei propri confini e, soprattutto, la formazione di un fronte unito nella società civile europea. Tifoserie permettendo.
di Marco Di Liddo
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