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Il film September 5 di Tim Fehlbaum, in diretta dalla tragedia
Da domani nella sale il film di Tim Fehlbaum, dedicato ai tragici eventi dei Giochi di Monaco 1972 e al gruppo terroristico “Settembre Nero”
Trasmettere una partita di calcio in tv è show o giornalismo? E le Olimpiadi? Quando guardiamo la realtà in uno schermo, siamo spettatori o ne siamo parte? Le Olimpiadi di Monaco 1972 hanno dimostrato quanto sia sottile il confine fra lo sport e la storia. E se lo sport è una forma pacifica e ritualizzata di guerra, allora il passaggio al racconto geopolitico diventa meno impensabile. “September 5” del regista Tim Fehlbaum (nelle sale da domani) è il racconto del giorno in cui il giornalismo sportivo è diventato cronaca di guerra e la tv si è fatta testimone impassibile di una tragedia mondiale.
La pellicola si muove fra la tensione del presente e il peso di una consapevolezza futura: i tragici eventi dei Giochi di Monaco 1972, il sequestro e la strage di 11 atleti israeliani da parte dell’organizzazione palestinese “Settembre Nero” (in quei concitati momenti i giornalisti non sapevano ancora se definirli guerriglieri o terroristi), non sono soltanto un episodio di cronaca ma un punto di non ritorno per come si sarebbe poi vissuta l’informazione. È la fine dell’innocenza: la diretta diventa un campo di battaglia, l’occhio della telecamera non è più soltanto narratore ma protagonista indiretto.
Nella sala stampa dell’emittente Abc Sport, il giovane e capace giornalista Geoff (interpretato da John Magaro) è alla regia della sua troupe sotto l’occhio attento dell’iconico Roone Arledge (impersonato da Peter Sarsgaard). Quella che per lui e il suo team doveva essere una trasmissione di sport, si trasforma in una corsa contro il tempo per raccontare un’altra storia. Con l’aiuto dell’interprete tedesca Marianne (l’attrice Leonie Benesch) e del mentore Marvin Bader (l’attore Ben Chaplin), Geoff si trova dai campi di gara a una trincea mediatica e a lui e ai suoi colleghi tocca ora confrontarsi coi dilemmi morali, fra il dovere di informare e la paura di spettacolarizzare la violenza. Ma il tempo scorre, le autorità tentennano e la diretta diventa una maratona angosciante di 22 ore in cui ogni parola può cambiare gli eventi.
Fehlbaum dirige con uno stile asciutto. La grana della pellicola richiama gli anni Settanta. La macchina da presa si muove inquieta fra le sale di controllo e il villaggio olimpico. Il montaggio serrato cattura la frenesia delle redazioni, il suono incessante delle telescriventi, il battito accelerato della storia che si scrive in tempo reale. Le musiche minimali e taglienti si dissolvono nel silenzio, lasciando spazio ai rumori ambientali, senza ulteriori drammatizzazioni. Cosa significa essere giornalisti in questi momenti? Fino a che punto la diretta è informazione e quando diventa spettacolo? Una questione che non riguarda soltanto quei giorni a Monaco, ma il giornalismo contemporaneo.
Il film racconta senza giudicare, mostrando l’ambiguità di un mestiere che oscilla fra etica, verità e necessità degli ascolti. La tragedia di Monaco è stata il primo grande evento di cronaca seguito in diretta in tutto il mondo e da allora il giornalismo non è stato più lo stesso. Un film che parla a questo presente in cui notizie, immagini di conflitti e tragedie scorrono via senza elaborazione. Ogni storia porta con sé una responsabilità: non trasformare il dolore in intrattenimento, non confondere la realtà con la sua rappresentazione. Il giornalismo è un lavoro fatto di scelte difficili, di errori, di pressioni insopportabili. Ma è anche necessario, perché senza testimoni la storia rischia di diventare soltanto un’eco lontana.
Di Edoardo Iacolucci
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