Il tema dei profughi non è una questione di bontà, ma di civiltà. Vale per l’Afghanistan come per qualsiasi altro posto. Comporta un giudizio negativo sul regime al governo da dove arrivano, non la compassione per la condizione economica in cui si trovano. Se c’è un terremoto e si tratta di soccorrere allora si può dire: aiutiamo prima le donne e i bambini. Ma se c’è una dittatura e gli oppositori rischiano d’essere annientati no, non si ragiona a quel modo. Pare, insomma, che il buonismo impolitico abbia attecchito nelle deboli culture di sinistra come di destra.
Durante il fascismo ripararono all’estero Salvemini, Rosselli, Pertini, Pacciardi e così via elencando il meglio della cultura italiana non asservita al regime. Chi li accolse prese loro, non le loro bimbe, e lo fece sapendo di star compiendo una scelta politica, sapendo che era un ulteriore modo per colpire il fascismo. E il fascismo lo sapeva, tanto che mandava assassini a farli fuori.
I profughi non sono emigranti. Accoglierli non è un gesto di generosità nei loro confronti, ma nei nostri, perché nostra è la cultura che riconosce la protezione a chi si batte per i diritti. Questione che non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con l’emigrazione. Anche lì, per intendersi: non è che gli emigranti economici siano figli di un dio minore, è che sono una questione totalmente diversa e si accolgono finché conveniente e possibile. Nel caso dell’Afghanistan con un’attenzione in più: evitare che s’infiltrino futuri terroristi.
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