“Benvenuti a Catanzaro, da qui Ulisse ripartì per Itaca“. Così recita l’insegna che si trova all’ingresso di Catanzaro.
La storia della Calabria, infatti, ha inizio in un periodo che gli storici collocano fra il XIII e il VIII secolo a.C. ed è costellata da un susseguirsi ininterrotto di dominazioni e civiltà diverse: da quella greca a quella romana e ancora a quella araba. Il frutto di questo processo è l’incredibile quantità di scavi e siti archeologici che testimoniano quanto questa terra ricoprisse un ruolo di primo ordine sia a livello culturale che a livello economico. Numeri alla mano, la Calabria vanta ben 10 parchi archeologici di rilevanza nazionale, fra cui quello di Sibari, che con i suoi 168 ettari di estensione si colloca di diritto nella lista dei più estesi d’Europa.
Tuttavia, di fronte a una simile abbondanza di risorse, come si comportano le amministrazioni? Quello della spesa destinata al mantenimento e alla valorizzazione del patrimonio archeologico, storico e culturale è senza dubbio uno dei tasti più dolenti, per l’Italia nella sua interezza ma soprattutto per una regione che arranca agli ultimi vagoni del treno dell’economia nazionale.
Nel rendiconto dell’esercizio finanziario del 2019, l’ultimo per il quale siano disponibili dei dati, alla voce “Tutela e valorizzazione dei beni e delle attività culturali” risultano destinati solo 28,7 milioni di euro, pari allo 0,5% della spesa totale. Cifra che appare irrisoria rispetto a quella che è la reale potenzialità di un patrimonio che, se adeguatamente valorizzato, potrebbe contribuire alla creazione di un turismo culturale basato sulla (ri)scoperta di un patrimonio talmente vasto e mal amministrato da rimanere sconosciuto a una buona parte dei calabresi stessi. Appare dunque evidente come lo sviluppo di una regione che fu un tempo culla della civiltà occidentale sia imprescindibilmente legato al suo passato, e come il suo futuro debba passare attraverso quest’ultimo.
di Marco Durante
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