Nel radioso maggio del 1915 gli italiani andarono al fronte senza uniformi invernali perché era convinzione che sarebbe finita in pochi mesi. Nell’estate del 1918 il Consiglio supremo di guerra alleato non ne prevedeva la fine prima di un anno. Due previsioni sballate, come sempre se si parla di guerra. Iniziarla non è difficile, finirla è complicatissimo.
La storia dice che o il conflitto si esaurisce in un arco brevissimo di tempo oppure servono anni, perché nessun governo sopravvive a una sconfitta e per questo è determinato nel ribaltarne le sorti. Nel frattempo il sistema industriale entra in un regime di economia di guerra e nelle società il consenso legato alla propria sopravvivenza, al patriottismo e alla propaganda fa sopportare gli inumani costi del conflitto. I comandanti iniziano una partita a scacchi, con mosse e contromosse che si annullano a vicenda; così facendo la guerra diventa attrito e logoramento per vite e strutture, costi e consenso. Se la traiettoria è intuibile non lo sono mai gli esiti, perché una guerra ha umana imprevedibilità, non ha certezze e semmai presunzioni, come insegnano l’attacco russo e la controffensiva ucraina.
Questa è iniziata con grandi attese nell’opinione pubblica, convinta che l’armata russa fosse (e forse ne era a un passo) allo sbando. Mancava l’elemento sorpresa perché il Mar d’Azov era obbiettivo dichiarato. Mancava di superiorità aerea che è nei sistemi d’arma in cui sono integrati gli aerei e mancava di parecchie cose da usare sul terreno: mezzi che in Occidente non sono in magazzino ma proprio rottamati, a partire dalle dotazioni dei genieri. Si scontrava con forze russe – ancora il secondo esercito del mondo, dove la quantità diviene qualità – schierate coerentemente con gli obbiettivi politici di Putin: tenere la Crimea e conquistare quelle parti delle quattro “repubblichette” tornate in mano ucraina dopo la fulminante, quella sì, offensiva della scorsa estate.
Il generale Gerasimov ha costruito un enorme campo trincerato che nega agli ucraini spazi per le armi occidentali; ha un dispositivo profondo ma combatte contrattaccando costantemente sulla prima linea di difesa, con perdite elevatissime prontamente rimpiazzate – per ora – con un sistema garantito dai coscritti. Gli ucraini hanno cambiato tattica e hanno accettato di giocare al logoramento e forse soltanto ora si può intravedere qualche evoluzione a loro favore. Nel frattempo le opinioni pubbliche occidentali e gli entusiasti analisti del mese scorso sono meno entusiasti e parlano di una controffensiva “da rivedere”, non comprendendo che è già stata rivista e che richiederà uno sforzo da parte dell’Occidente a sostegno dell’Ucraina molto più duraturo di, guarda caso, quanto si prevedesse.
Essendo una previsione può essere ribaltata domani mattina da uno degli imprevedibili e possibili eventi di guerra, ma è bene ci si apparecchi per la regola di cui sopra e cioè che passato l’anno ne potrebbero passare anche parecchi. Ci conviene, perché lo stato delle forze di difesa occidentali – americani e inglesi esclusi – è precario e la riapertura delle linee di produzione richiesta dal conflitto permette (come nel caso italiano per i Leopard) di ricostruire una efficace forza di difesa, forse addirittura europea. Processo lungo, con condizioni di partenza per noi sconfortanti e pure molto costoso.
Quanto le opinioni pubbliche siano disposte a sostenere costi psicologici e di bilancio dipenderà soprattutto da governi e Parlamenti. Ma come sempre, in assenza di certezze, si vis pacem…
di Flavio Pasotti
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