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Israele e i cambiamenti rivoluzionari

Israele e i cambiamenti rivoluzionari

Israele sta vivendo cambiamenti rivoluzionari perché i fondamenti della sua politica dal 1948 vengono travolti dagli eventi

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Israele sta vivendo cambiamenti rivoluzionari perché i fondamenti della sua politica dal 1948 vengono travolti dagli eventi

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Israele sta vivendo cambiamenti rivoluzionari perché i fondamenti della sua politica dal 1948 vengono travolti dagli eventi

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Israele sta vivendo cambiamenti rivoluzionari perché i fondamenti della sua politica dal 1948 vengono travolti dagli eventi

Israele sta vivendo cambiamenti rivoluzionari perché i fondamenti della sua politica dal 1948 vengono travolti dagli eventi e se in questi mesi è stato chiaro che l’opinione pubblica occidentale stenta a capire le ragioni di Tel Aviv è altrettanto vero che Tel Aviv, incastrata da Netanyahu e dalle attese sugli esiti delle elezioni statunitensi, sembra non essere in grado di affrontare il cambio di scenario.

Dal 1948 la regola di ingaggio israeliana è sempre stata quella di essere la maggiore potenza regionale in grado di battere militarmente, economicamente, politicamente tutte le altre – anche messe insieme, come pure accadde – riducendo al minimo le perdite ebraiche. Nemmeno la guerra del Kippur cambiò queste convinzioni (eppure fu istruttiva, militarmente fu un problema ma politicamente portò la pace). Netanyahu ne è stato l’interprete più estremo, convinto come molti intellettuali israeliani che la pace non sia possibile con i palestinesi e che Israele possa sopravvivere solo incutendo paura, molta paura ai suoi vicini anche prescindendo da reazioni internazionali: ha alcune ragioni, visto che l’unica vera dichiarazione di genocidio sta nello Statuto di Hamas e nella tragica litania “From the river to the sea” che viene cantata nei cortei studenteschi di mezzo mondo.

I fatti più recenti hanno però azzerato questa convinzione. Il 7 ottobre la difesa tramite il terrore e la tecnologia ha fallito drammaticamente. La successiva invasione di Gaza non ha una soluzione politica a portata di mano, ha generato un terremoto antisraeliano e il rinfocolarsi di un antisemitismo vecchio e nuovo, in tutto l’Occidente più che in Medio Oriente. Militarmente ha poi mostrato come l’urban warfare e l’impegno su due fronti con Hezbollah al Nord siano troppo impegnativi per Idf, le Forze armate israeliane: soprattutto ha mostrato che a Israele ‘serve’ l’appoggio militare americano. In tal senso ricordiamo ben due Carrier Strike Group e un sommergibile nucleare per settimane davanti alla costa della Siria.

In questi mesi drammatici alcuni ostinati ‘falchi’ hanno addirittura sostenuto che Israele debba emanciparsi militarmente dalle forniture e dal sostegno americano, il che significherebbe affrancarsi dalle pressioni moderatrici di Washington per riaffermare la autonoma primazia militare e politica delle origini. Peccato che questa convinzione abbia portato a un atto militare che ora possiamo definire un errore politico quasi ingenuo: l’attacco esplicito ai generali dei pasdaran con la inevitabile risposta iraniana. Se le regole di ingaggio per Israele rimangono quelle del 1948, quelle dei barbuti di Teheran ora ci dicono che qualsiasi attacco agli interessi iraniani vedrà una risposta “dall’Iran”: cioè non attentati o altro ma veri atti di guerra fra Stati. Da qui i missili che l’opinione pubblica occidentale sottovaluta perché “non hanno fatto danni” ma che hanno azzerato la convinzione israeliana della propria supremazia come deterrente, perché senza l’intervento certo di Giordania, Stati Uniti, Francia e Regno Unito (e solo forse dei Saud) i danni sarebbero stati scioccanti e l’escalation conseguente ben più brutale di quanto visto a Isfahan. 

In sintesi, la strategia della superiorità del 1948 è archiviata e pure l’idea di poter sopportare l’isolamento internazionale come prezzo per la sopravvivenza. Il dinamismo regionale (e non solo) dell’Iran è stato paradossalmente un buon alleato perché ha rappresentato la ragione forte per gli Accordi di Abramo con gli Emirati, il Marocco e ancora forse con i Saud. Israele ora sa che non può più prescindere per ogni sua azione da un solido quadro internazionale di alleanze e questa crescente consapevolezza potrebbe fare il miracolo: condannarla alla pace perché il prezzo politico, umano ed economico per vincere le prossime guerre potrebbe essere insopportabile. Con il fallimento di Netanyahu potrebbe finire un’era.

di Flavio Pasotti

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