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Perché Israele ha colpito Unifil (ed era forse inevitabile che accadesse)

Intervista al generale Antonio Li Gobbi, capo del Reparto Operazioni del COI: ” situazione prevedibile, mi stupisco dello stupore”

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Perché Israele ha colpito Unifil (ed era forse inevitabile che accadesse)

Intervista al generale Antonio Li Gobbi, capo del Reparto Operazioni del COI: ” situazione prevedibile, mi stupisco dello stupore”

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Perché Israele ha colpito Unifil (ed era forse inevitabile che accadesse)

Intervista al generale Antonio Li Gobbi, capo del Reparto Operazioni del COI: ” situazione prevedibile, mi stupisco dello stupore”

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Intervista al generale Antonio Li Gobbi, capo del Reparto Operazioni del COI: ” situazione prevedibile, mi stupisco dello stupore”

La missione Unifil in Libano è sempre più a rischio, nonostante il ministro della Difesa, Guido Crosetto, abbia ribadito “Siamo in Libano e ci rimaniamo, con la forza del mandato delle Nazioni Unite”. Ma i rischi per il continente internazionale – e italiano – aumentano dopo che le forze di Israele hanno colpito nuovamente le basi della missione ONU.

“Questa situazione era prevedibile e mi stupisco dello stupore”, commenta a caldo il generale Antonio Li Gobbi del Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI), con alle spalle missioni ONU in Siria e Israele, interventi in ambito NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan e in servizio a Bruxelles.

Il problema riguardo alla missione UNIFIL è che, come altre missioni ONU, può funzionare solo a patto che operi tra entità statuali che siano consenzienti e che siano in grado di esercitare un controllo effettivo su tutte parti in causa (e né Libano né Israele controllano gli Hezbollah, etero diretti da Teheran). Ogni volta che si è pensato di poter ampliare il ruolo militare dell’ONU, come ad esempio in Congo nel 1964, si è assistito a un fallimento, perché in campo c’erano anche milizie non statuali, come ora c’è Hezbollah in Libano o come in passato è accaduto in Somalia e in Bosnia, dove poi è subentrata la NATO, con ben diverso mandato, diverse regole d’ingaggio e soprattutto diversa credibilità politica”, spiega Li Gobbi.

Per il generale è fallito il principale obiettivo di Unifil, ossia il rispetto della risoluzione 1701 delle Nazioni Unite: “Di fatto è disattesa da tempo: le forze israeliane si erano ritirate al di là della Blue Line, dove non avrebbero dovuto esserci operazioni militari, invece Hezbollah non solo ha proseguito con il lancio di missili sul nord di Israele, ma lo ha anche intensificato dopo il 7 ottobre”.

Il punto è che l’ONU non è strutturata politicamente, prima ancora che militarmente, per condurre in proprio operazioni di peace enforcing, ma solo di peace keeping. Pertanto, una missione ONU si può istituzionalmente basare solo sul consenso delle parti al suo operato e questo si fonda sulla fiducia. Se uno degli attori (in questo caso Israele) ritiene che quella Forza non garantisca più il rispetto delle condizioni concordate e che consenta invece alla controparte di acquisire vantaggi ritenuti illegittimi, è inevitabile aspettarsi sfiducia nell’operato della missione ONU – sottolinea il generale – Per questo Israele ha chiesto a UNIFIL di arretrare di 5 km, per poter agire contro Hezbollah, che ha le sue postazioni proprio in quell’area. Non è perché, come qualcuno sostiene, non vuole che ci siano ‘testimoni scomodi’, ma semplicemente perché avere una forza frapposta impedisce le operazioni e, oltretutto, facilita Hezbollah che può contare sul fatto che l’avversario non lo colpisca per la prossimità con la missione”. Esiste anche un precedente analogo: “Accadde il 16 maggio 1967 da parte dell’Egitto in Sinai. All’epoca il Segretario Generale delle Nazioni Unite, U Thant, attese tre giorni, poi acconsentì. Neanche un mese dopo Israele, dovette lanciare un attacco preventivo per precedere l’ormai imminente aggressione egiziana (con la guerra dei sei giorni)”, ricorda il generale.

Ora sono però diverse le reazioni alle operazioni israeliane che hanno colpito Unifil, anche se la missione non viene meno: “Il ministro della Difesa, Crosetto, ha protestato ufficialmente e non poteva fare altrimenti. Qualche mese fa le nazioni contributrici più importanti (Italia, Francia e Spagna) avrebbero dovuto porre con forza il problema al Segretario Generale e al Consiglio di Sicurezza: o si cambia la missione per renderla in condizione di far veramente implementare la 1701 o si ritirano i contingenti. Quella finestra di opportunità temporale è, a mio avviso, ormai svanita. Adesso un ritiro del solo contingente italiano non può essere accettato politicamente e apparirebbe una fuga indecorosa, a meno che a livello di Consiglio di Sicurezza ONU non si decida il ritiro dell’intera missione”, spiega Li Gobbi.

Inevitabile pensare anche all’altro fronte, quello con l’Iran, verso cui ci si aspetta una risposta di Israele dopo il lancio di 200 missili, il 1° ottobre. “È molto difficile dire quale potrebbe essere. Per colpire le infrastrutture nucleari Israele dovrebbe consultarsi con gli Usa, che vivono un momento di estrema debolezza politica, sia per cambio di presidenza, sia perché il Presidente attuale è in gran parte delegittimato all’interno, dopo il ritiro dalla campagna elettorale. I due candidati, invece, è immaginabile che non si vogliano esporre oggi per motivi di prudenza. Credo, quindi, che potrebbe essere più percorribile la via di un attacco ai terminali petroliferi iraniani, che Tel Aviv potrebbe condurre autonomamente e senza neppure infastidire le monarchie sunnite, con le quali Israele deve continuare a mantenere aperto un dialogo. Ovviamente, però, Israele ci ha abituato anche ad attacchi imprevedibili”.

Difficile, quindi, pensare alla fine del conflitto a breve. “Personalmente non vedo grandi soluzioni all’orizzonte, perché tutte richiedono un coinvolgimento di Teheran. Ma finché in Iran c’è la teocrazia degli Ayatollah al potere si potranno vincere delle battaglie, come a Gaza, ma non raggiungere il termine delle ostilità. D’altro canto né egiziani né giordani vogliono rimanere coinvolti nella questione palestinese. In Libano finché non viene espulso Hezbollah non si risolve il problema degli attacchi dal sud del Paese e, infine, la persistenza di Assad in Siria ha la sua influenza sugli sciiti. È tutto interconnesso – chiarisce Li Gobbi – Si potrebbe solo auspicare che una sollevazione della popolazione iraniana possa rovesciare l’attuale potere, ma temo che ad oggi sia improbabile. Un conto sono le comunità cittadine, che possono dar vita a proteste a Teheran, ma gli Ayatollah godono di un forte sostegno nelle campagne, esattamente come in Afghanistan, dove si sono viste le conseguenze nel pensare che tutta la popolazione fosse pronta a ribellarsi ai talebani”.

Quanto alle potenze mondiali e a un loro possibile intervento come mediatori, “Forse ci vorrebbe il coinvolgimento degli Usa, che però non ci sarà almeno fino dopo le elezioni. Ma serve anche il contributo di Russia e Cina. Con quali contropartite, però? È immaginabile che queste richiedano qualcosa in cambio, magari rispettivamente in Ucraina e nel Mar Cinese meridionale, a Taiwan”.

di Eleonora Lorusso

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