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Crêuza de mä

I quarant’anni di “Crêuza de mä”

Nel marzo del 1984 Fabrizio De André, in collaborazione con Mauro Pagani, pubblicava il suo undicesimo album in studio, “Crêuza de mä

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I quarant’anni di “Crêuza de mä”

Nel marzo del 1984 Fabrizio De André, in collaborazione con Mauro Pagani, pubblicava il suo undicesimo album in studio, “Crêuza de mä

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I quarant’anni di “Crêuza de mä”

Nel marzo del 1984 Fabrizio De André, in collaborazione con Mauro Pagani, pubblicava il suo undicesimo album in studio, “Crêuza de mä

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Nel marzo del 1984 Fabrizio De André, in collaborazione con Mauro Pagani, pubblicava il suo undicesimo album in studio, “Crêuza de mä

Nel marzo del 1984 Fabrizio De André, in collaborazione con Mauro Pagani, pubblicava il suo undicesimo album in studio, “Crêuza de mä”, scritto nella lingua della Repubblica di Genova, «un esperanto commer­cia­le con molte radici a­rabe e occitane, che un tem­po tutti, dal Bosforo a Gibilterra, capivano», come dichiarò l’au­tore in un’in­tervista a “Il Gior­no”.

Oltre a rappresentare un unicum dalla pertinacia leggendaria nel crepitare di luci rifratte degli anni Ottanta, oltre a raccontare montaliane rimembranze, “Crêuza” è forse la consegna artistica del passaggio dal monocorde trobar di sapidità intimista a un bipolarismo concentrico di linee tematiche e sonore. Da qui spunta un nuovo De André: sempre proteso a dar voce agli umili e alle loro disavventure, ma coraz­zato della potente arma di dualità riparativa che ora assolve, ristabilisce, prepara. È co­me se alla pars destruens di “Bocca di rosa” si associ una pars costruens, un motivo celeste e celestiale, da Pachelbel dei diseredati. L’uso di strumenti bislacchi (si pensi alla gaida macedone che introduce il disco) e l’accurata investigazione musicale, nella quale Pagani svolge un ruo­lo importante, dispone il campo all’incantamento che sospinge i marinai verso «una voglia porca di terra»: cioè «di avere sotto la chiglia ciot­toli di pietra, una crêuza amica e si­cura come il sentiero che costeggia i muretti di pietra che dividono i poderi sulle fasce della montagna» (così Faber in “Sotto le ciglia chissà”, Mondadori 2016).

La ‘mulattiera di mare’ diviene dunque il simbolo – come attesta il doppio significato in genovese – di un sen­tiero apparente in dire­zione dell’Altrove, battuto da refoli di vento, luogo incontenibile per sciamani della parola, posto ruvido di commiato che prelude e annuncia altri mondi al di là di questo. E sovrumani silenzi. Le immagini ricavate dai detti popolari, dai ritmi della voga, dai fondaci e dagli empori sono vividissime. Basti ricordare l’incipit della title-track: «Umbre de muri, muri de mainé, / dunde ne ve­gnì, duve l’è ch’ané? / Da ’n scitu duve a l’ûn-a a se mustra nûa / e a neutte a n’à puntou u cu­tellu ä gua / e a muntä l’à­se gh’é restou Diu» («Om­bre di facce, facce di marinai, / da dove venite, dov’è che andate? / Da un posto in cui la luna si mostra nuda / e la notte ci ha puntato il coltello alla gola / e a montare l’a­si­no c’è ri­masto Dio»).

“Crêuza de mä”, stranamente (eppure comprensibilmente), ebbe una vasta eco in tutto il mondo: è noto che il compositore David Byrne segnalò a “Rolling Stone” l’importanza cruciale del disco nella scena musi­cale de­gli anni Ottanta. L’abbrivo catalizzatore di canzoni come “Jamin-a” o “D’ä mæ riva” esibisce in nuce quella maturità artistica di soggetti e sono­rità che avrà pieno raccordo nelle tracce di “Anime salve” (1996). Ad esempio, il ritaglio strumentale di “Smisurata preghiera” – lungo più di due minuti, che segue al ringhio arrembante della de­nuncia sociale e chiude l’album – mette in sce­na gli attimi precedenti alla visione del volto di Dio. Le anime in­ferme ma «salve», i catarri sgra­diti che la so­cietà raffreddata sputacchia qua e là, guardano ora al loro compimento.

In generale, l’opera di De André – proprio a partire da “Crêuza de mä” – ci appare oggi come una delle più grandi riabili­ta­zioni del reietto nel Novecento italiano, as­sieme a neorealismo letterario e cinematografico: un neo­realismo però che, pur rammentando costantemente la sua ma­trice lai­­ca e anarchica, non rinuncia a una dimensione delle cose gonfia di elevazio­ne e rapimento. Dimensione che può essere anche chiamata ‘mistica’.

di Alberto Fraccacreta

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