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Grand Tour, l’infinito fra due punti

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Mettersi in viaggio accettando l’incertezza e il mistero come tappe necessarie. Arriva nei cinema “Grand Tour” del regista portoghese Miguel Gomes

Grand Tour

Grand Tour, l’infinito fra due punti

Mettersi in viaggio accettando l’incertezza e il mistero come tappe necessarie. Arriva nei cinema “Grand Tour” del regista portoghese Miguel Gomes

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Grand Tour, l’infinito fra due punti

Mettersi in viaggio accettando l’incertezza e il mistero come tappe necessarie. Arriva nei cinema “Grand Tour” del regista portoghese Miguel Gomes

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Mettersi in viaggio accettando l’incertezza e il mistero come tappe necessarie. Arriva nei cinema “Grand Tour” del regista portoghese Miguel Gomes, un’opera audace e poetica capace di unire passato e presente, realtà e immaginazione. Premio per la migliore regia all’ultimo Festival di Cannes, è un’esperienza cinematografica che intreccia storie, epoche e stili differenti.

Siamo a Rangoon, Birmania, nel 1917. Edward (interpretato da Gonçalo Wiaddington) è un impiegato statale dell’impero britannico. Fugge dalla sua fidanzata Molly (impersonata da Crista Alfaiate) il giorno in cui lei arriva per sposarsi. Il viaggio di Edward attraverso l’Asia diventa così un’odissea personale. Il panico si trasforma in malinconia e apre le porte all’introspezione. Dall’altra parte invece, determinata a sposarsi e quasi divertita dalla mossa di Edward, Molly segue le sue tracce in questo grand tour asiatico che diventa una caccia romantica che ricorda le screwball comedies (tipiche commedie statunitensi degli anni Trenta e Quaranta).

Il lungometraggio alterna bianco e nero e colore, finzione e documentario, muovendosi tra l’Asia coloniale degli anni Dieci del Novecento e le immagini moderne del Sud-Est asiatico, girate inizialmente in presa diretta dal regista nel 2020 e poi completate durante la pandemia grazie a una troupe locale supervisionata da remoto. Un viaggio simbolico che va oltre i limiti del cinema narrativo, con incastri temporali che creano ponti tra passato e presente. La fuga di Edward e la ‘rincorsa’ di Molly ricordano il paradosso di Zenone, in cui Achille non raggiungerà mai la tartaruga per gli infiniti punti che li dividono. Così le immagini documentaristiche contemporanee diventano l’allegoria di questo tratto infinitesimale di distanza tra due punti e il tempo della narrazione viene dilatato, in questa sfumata costruzione di un mondo dove ogni immagine ha più significati.

La regia di Gomes si distingue proprio per la fusione di elementi narrativi letterari con un linguaggio cinematografico puro. La voce narrante, che ricorda le tradizioni del romanzo, guida lo spettatore attraverso una trama che si svela in modo frammentario, lasciando spazio alla libera interpretazione. Ed è questo uno degli aspetti più affascinanti di “Grand Tour”: il ruolo attivo assegnato a chi guarda. Gomes crea uno spazio di interpretazione aperto, dove lo spettatore è invitato a proiettare le proprie emozioni e percezioni sulle immagini. Scene talvolta sfumate, altre volte cariche di dettagli quasi pittorici, ricreando la magia dell’Asia senza l’ausilio di effetti digitali. Scene che si alternano apparentemente senza una logica, come fossero in un sogno.

Nonostante il tono meditativo, il film ha momenti di puro umorismo. Un esempio è la scena in cui Molly parla male di altre donne, con i dialoghi censurati da un ‘bip’, come se fossero in tv in fascia protetta, prendendo forse in giro l’estremismo del politicamente corretto. Un contrasto tra serietà e leggerezza che richiama l’influenza di Manoel de Oliveira, maestro nel bilanciare i sentimenti.

Più che un semplice racconto di avventura, “Grand Tour” è una riflessione sui legami umani e sull’incomunicabilità. E dimostra le infinite possibilità del linguaggio cinematografico. Edward e Molly, separati nello spazio e nel tempo, vivono un viaggio a distanza. Due punti separati, ma sulla stessa via.

di Edoardo Iacolucci

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