Che l’industria musicale sia stata duramente colpita dalla crisi dovuta alla pandemia non è una novità. Fin dai primi mesi erano evidenti quelle che sarebbero state le difficoltà di un settore che ormai da anni viveva già una situazione precaria, tamponata solo dagli introiti derivanti dalle esibizioni dal vivo e dai tour.
È cosa nota come prima dell’arrivo dei servizi di streaming i guadagni per gli artisti e le etichette arrivassero anche dalla vendita dei dischi, cosa che oggi succede sempre meno. La cifra data dai servizi di streaming non è precisamente nota. Secondo alcune stime per Spotify dovrebbe essere intorno a metà di un centesimo a riproduzione, Youtube paga anche meno. Tradotto: per fare uno stipendio, bisogna macinarne di ascolti e visualizzazioni! E senza una vera e propria riforma del settore, richiesta a gran voce da più artisti di diverse nazioni, che possa trovare il modo di riconoscere in modo congruo quanto dovuto agli autori, le difficoltà sono destinate a crescere.
Non stupisce quindi più di tanto che da qualche mese a questa parte si stiano susseguendo notizie di artisti che cedono a terzi i propri interi cataloghi musicali per cifre considerevoli. Clamoroso fu il ping pong dei diritti legati ai capolavori dei Beatles: prima acquistati da Micheal Jackson, poi recuperati in extremis da Paul Mc Cartney e infine, nuovamente, ceduti alla Sony non molto tempo fa.
Gli ultimi in ordine cronologico, dopo Bob Dylan, Neil Young e altri, sono stati gli Aerosmith che hanno ceduto tutta la loro produzione musicale, compresi gli archivi personali, a Universal Music Group per una cifra che, per quanto non nota, possiamo immaginare notevole, visti i 50 anni di musica alle spalle della band. Ma al di là delle questioni legate ai mancati introiti dai live e una tassazione particolarmente bassa applicata al momento su questo tipo di operazioni, potrebbero esserci anche altre ragioni dietro alla scelta di questi artisti.
Una possibile spiegazione di queste “svendite” può essere rintracciata semplicemente nel trascorrere del tempo.
Passa per tutti, si sa. La certezza di essere sempre sulla cresta dell’onda, di essere in cima alle classifiche, non ce l’ha nessuno come nessuno sa se potrà continuare ad esibirsi con costanza. Oltretutto, questo biennio ci ha insegnato quanto sia necessario essere previdenti e che può, letteralmente, capitare qualsiasi cosa lasciando quasi sul lastrico anche il più impensabile degli artisti. Basti pensare a quanto capitato a David Crosby, letteralmente una leggenda vivente della musica della West Coast, che a causa della pandemia è stato vicinissimo alla banca rotta.
Ma se le motivazioni degli artisti sono valide, ancora di più lo sono per chi ha deciso di acquisire questi cataloghi. È abbastanza facile immaginare quanto la possibilità di gestire liberamente interi pezzi di storia della musica possa fruttare alle grandi Major del settore che però non sono le uniche ad essere interessate a questi investimenti.
Si pensi all’utilizzo che se ne può fare nei film, nelle pubblicità o più semplicemente agli arrangiamenti nuovi che possono poi venire reinterpretati da artisti più giovani. Da qualche tempo a questa parte anche aziende con dietro investitori di Wall Street stanno provando ad accaparrarsi il controllo dei diritti sfruttando il momento difficile che molte Major del settore musicale stanno vivendo a causa della pandemia e del conseguente aumento dell’indebitamento.
In mezzo a questi lupi che si dividono il banchetto resta l’arte di uomini che nel corso dei decenni hanno saputo emozionare e far cantare, come gli Aerosmith, musiche senza tempo il cui futuri utilizzi e destinazioni sono tutto tranne che certi.
di Federico Arduini
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