Arthur Friedenreich, un re prima di O Rei
Arthur Friedenreich, l’uomo che ha ‘inventato’ il calcio brasiliano tempo prima che questo diventasse il modello globale che conosciamo
Arthur Friedenreich, un re prima di O Rei
Arthur Friedenreich, l’uomo che ha ‘inventato’ il calcio brasiliano tempo prima che questo diventasse il modello globale che conosciamo
Arthur Friedenreich, un re prima di O Rei
Arthur Friedenreich, l’uomo che ha ‘inventato’ il calcio brasiliano tempo prima che questo diventasse il modello globale che conosciamo
Chi è il calciatore che ha segnato più gol nella storia del calcio? È una domanda che da sempre divide appassionati e studiosi dello sport. Eppure, ogni volta che si tenta di rispondere, lo sguardo finisce per dirigersi verso il Brasile. I nomi più scontati sono quelli di Pelé o di Romário, ma prima di “O Rei” e di “O Baixinho” c’è stato Arthur Friedenreich: l’uomo che ha ‘inventato’ il calcio brasiliano tanto tempo prima che questo diventasse il modello globale che oggi conosciamo.
Nato nel 1892 a San Paolo, figlio di un commerciante tedesco e di una lavandaia afro-brasiliana, Friedenreich ha vissuto la doppia condanna dell’emarginazione sociale e razziale in un’epoca in cui il calcio era appannaggio delle élite bianche. Ragione per cui il ragazzo, di pelle mulatta, non poteva essere ingaggiato da nessuna squadra. Punta centrale dal talento cristallino, divenne presto una leggenda del futebol de várzea, il calcio giocato nei quartieri popolari su campi improvvisati, dove dispensava dribbling, creatività e bellezza al punto che Eduardo Galeano lo definì «l’uomo che fece perdere al calcio brasiliano i suoi angoli retti».
La sua classe era talmente manifesta che il Germânia – la squadra che inizialmente lo aveva rifiutato per il colore della pelle – decise di ingaggiarlo. In campo il giovane incantava, per questo divenne rapidamente l’idolo dei tifosi. La sua popolarità era una rivalsa per la gente di colore, ma lui non voleva vivere da simbolo. Anzi, rivendicava le proprie radici europee al punto che, in una partita commemorativa tra bianchi e neri per l’anniversario della Lei Áurea (la legge che nel 1888 aveva abolito la schiavitù), scelse di giocare con i bianchi. Ciò nonostante continuò a subire l’ostracismo riservato agli afrobrasiliani.
Dimostrazione ne fu il suo complicato rapporto con la Nazionale. Nel 1914 giocò nella prima partita ufficiale della Seleção. Quattro anni dopo segnò il gol decisivo nella finale della Copa América che regalò al Brasile il primo trofeo internazionale. Ma nel 1922 il presidente brasiliano Epitácio Pessoa vietò l’impiego di giocatori di colore fra le file della rappresentativa e Friedenreich si ritrovò fra gli esclusi. Finì la sua vita nel 1969, in povertà e consumato dall’Alzheimer, proprio mentre il Brasile stava vivendo il culmine dell’era di Pelé.
Secondo il giornalista Mário de Andrade, suo amico e compagno, Friedenreich segnò 1.329 gol in circa 1.200 partite. Un numero straordinario, poi ridimensionato ufficialmente a 1.239 (dunque meno dei 1.281 attribuiti a Pelé) e infine ulteriormente ridotto a 547 gol in 572 partite, al termine di un conteggio che esclude tornei amichevoli, partite-esibizione e molti altri incontri non ufficiali. Proprio quelli che, invece, vengono inclusi nel totale del più famoso Edson Arantes do Nascimento detto Pelé, l’eroe nero che la nazione aveva scelto di celebrare.
Il tempo avrebbe però reso giustizia, seppur parzialmente, a Friedenreich. Nel 2000 la Federazione internazionale di storia e statistica del calcio (Iffhs) lo ha inserito infatti tra i migliori calciatori sudamericani del XX secolo. E il premio assegnato ogni anno al capocannoniere del Brasileirão (il massimo campionato di calcio brasiliano) porta il suo nome. Un riconoscimento che non restituisce appieno il posto che gli spetta nella storia.
Oggi la leggenda di Friedenreich sopravvive più nel mito che nelle statistiche. È il prezzo pagato da chi è arrivato troppo presto in un mondo che non era ancora pronto per lui. Ma ogni volta che si parla di chi abbia davvero segnato di più, di chi abbia acceso per primo la scintilla del “joga bonito” (il principio secondo cui il calcio deve basarsi su abilità tecniche, creatività, spettacolarità e offensività), il suo nome riemerge. E con lui l’eco di una verità mai del tutto raccontata.
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