Una storia azzurra
Da quando l’Italia vinse la sua prima Coppa Davis tante cose sono cambiate ma una è rimasta uguale: la potenza della maglia azzurra portata sul tetto del mondo. Una storia azzurra
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Da quando l’Italia vinse la sua prima Coppa Davis tante cose sono cambiate ma una è rimasta uguale: la potenza della maglia azzurra portata sul tetto del mondo. Una storia azzurra
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Da quando l’Italia vinse la sua prima Coppa Davis tante cose sono cambiate ma una è rimasta uguale: la potenza della maglia azzurra portata sul tetto del mondo. Una storia azzurra
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Da quando l’Italia vinse la sua prima Coppa Davis tante cose sono cambiate ma una è rimasta uguale: la potenza della maglia azzurra portata sul tetto del mondo. Una storia azzurra
Quando l’Italia vinse la sua prima e fino a ieri unica Coppa Davis la televisione a colori nel nostro Paese non c’era ancora. Anzi si sperimentava proprio con l’Italia di Davis. Ci avviavamo all’autunno caldo del ‘77 e portavamo i segni del primo shock petrolifero: le domeniche a piedi, l’austerità, l’economia a rotoli, mentre il terrorismo alzava sempre più il tiro.
Quando vincemmo la nostra prima e unica Coppa Davis – fino a ieri – il mondo era immerso nella guerra fredda e gli Stati Uniti erano ancora sotto shock per la fine disastrosa in Vietnam. In Medio Oriente, una guerra era terminata da pochi anni, ma si lavorava alla prima speranza di pace fra Egitto e Israele (che sia un raggio di luce per oggi).
Di quel lontano trionfo sportivo l’eco più potente fu quello politico, per la contestata scelta di andare a giocare nel Cile del golpista Pinochet. La trasferta salvata dall’attivismo “politico“ del capitano non giocatore Nicola Pietrangeli e suggellata dalla mistica delle maglie rosse indossate in doppio da Adriano Panatta e Paolo Bertolucci.
Il mondo da allora è cambiato più volte. La stessa Coppa Davis è una lontanissima parente, nella formula e nelle caratteristiche che ne facevano un unicum nel panorama tennistico e sportivo.
Quello che non cambia è la potenza immateriale e fuori dal tempo di una maglia azzurra portata sul tetto del mondo. Di quelle vittorie che coinvolgono l’Italia intera, trascinata da un campione che abbiamo atteso più o meno mezzo secolo. Gli astri dello sport dovevano aver deciso di puntare tutto su un ragazzone arrivato dal profondo Nord per riscaldarci come non ci capitava da tanto.
E non ci riferiamo solo al tennis azzurro, che per una lunga stagione sembrava disperso irrimediabilmente nelle retrovie mondiali. Se di quella vittoria in Cile – come si diceva – abbiamo ricordato per cinquant’anni molto più la politica che le facili vittorie in campo, di Malaga 2023 non potremo mai toglierci di dosso la sensazione del sabato della semifinale contro la Serbia. Di quei tre match point annullati a sua maestà Nole Djokovic. Di quei momenti di sport che ogni tanto fanno sentire un paese intero protagonista e importante.
Fatti i doverosi complimenti a un Ct tante volte criticato come Volandri, alla freschezza di Arnaldi (decisivo nell’1-0 di ieri che ci ha evitato il rischio di un doppio contro la fortissima coppia australiana), Musetti e Sonego, è evidente che l’Italia oggi sia Jannik Sinner.
Nell’anima, nella classe debordante, in una forza psicologica spaventosa capace di tener testa al robotico e pressoché imbattibile Djokovic.
Fra Torino e Malaga, Jannik si è letteralmente tramutato in una specie di eroe popolare. Nel fidanzato d’Italia, nel protagonista indiscusso di milioni di discorsi, gesti e dibattiti da bar, supermercati, ristoranti, autobus e metropolitane. Nell’atleta che può fermare il Paese, da solo. Come solo Alberto Tomba sapeva fare. Valeva la pena aspettare.
di Fulvio Giuliani
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