Mi piacciono i ristoranti. A chi non piacciono? Ma oltre che per mangiare, per scoprire, per osservare, mi piacciono per quello che sono riusciti a fare. Perché se c’era un settore, quando si dovette chiudere tutto, condannato al letargo era quello della ristorazione. Chissà se al risveglio sarebbe stato ancora vivo. E invece no. Invece molti non hanno riposto pentole e padelle e se i clienti non potevano più andare al ristorante era il ristorante che sarebbe andato a casa loro. Mentre qualcuno, fra i più ricchi, intraprendeva la carriera bollita della lamentazione televisiva, gli altri, fra i più bisognosi di lavoro, creavano un nuovo croccante mercato. Bravissimi.
Sono poi arrivate le prime riaperture, ma dentro non si poteva stare o, per starci fisicamente, si dovevano avere così pochi coperti da non poterci stare economicamente. Allora, complice la buona stagione, i tavoli sono arrivati a riempire strade e piazze. Quel che prima veniva multato ora era festosamente frequentato. Con il duro lavoro, magari anche con qualche prezzo ritoccato al rialzo (c’è anche questo), si è arrivati non solo a riprendere il terreno perduto ma ad avere più coperti di quanti non se ne abbia mai avuti e un’attività di consegna, al negozio o a domicilio, che prima era una stranezza e ora una consuetudine.
Non tutti, non tutti allo stesso modo, ma il settore che poteva anche stramazzare è non solo risorto, ma più forte e più bello che pria. Questi sono quelli che hanno riaperto veramente, mica i quattro sparaballe estremisti di “Io apro”. Certo, sì, ci sono stati anche i ‘ristori’, che poi sarebbero gli aiuti, i soldi ricevuti dalla spesa pubblica, ma poca cosa, ben spesa, capace di conservare in vita quel che poi ha ripreso a lavorare sodo.
Non sempre, però, le cose sono andate così. Accanto a quel che ha funzionato s’è posizionata una certa economia del ristoro, che è poi una mentalità: provveda lo Stato, che tutti siamo bisognosi e meritevoli d’aiuto. Per troppi il Covid è stato più un innesco che una disgrazia. Mentre la stragrande maggioranza dei vaccinabili è vaccinata – cosa che consente non solo di tenere aperti, ma anche di frequentare i ristoranti – c’è chi vuol usare il Covid e la libertà di non vaccinarsi come pretesa per mungere soldi.
Che sono i soldi versati da chi ha continuato a spadellare e lavorare. E mica ci sono solo i portuali di Trieste, non a caso capeggiati da un vaccinato che si fa portavoce dei diritti dei non vaccinati, invocando un assai presunto diritto al lavoro, per il quale si chiede che il contribuente paghi per conto altrui, nel frattempo togliendo il diritto al lavoro a quelli che dal blocco triestino subiscono un danno. Una sconcezza che è riduttivo chiamare prepotenza.
Mica ci sono solo loro, appunto, e mica solo lavoratori dipendenti, perché anche organizzazioni datoriali si stanno specializzando nella richiesta di ristori, aiuti, soldi senza i quali, a sentir loro, il sistema produttivo crollerebbe. Solo che il sistema realmente produttivo, nel frattempo, schizza nelle esportazioni e galoppa per riguadagnare tempo e posizioni perdute. Ed è da quel sistema, da quanti lavorano, da quanti si sono vaccinati, che si dovrebbero spremere i soldi per ristorare gli altri. No, grazie.
Oh, a scanso di equivoci: l’economia del ristoro non ha colore politico, come non lo ha la caciara sui vaccini. Se la destra ha provato a intestarseli, rincorrendo la rappresentanza dei ribellismi – che è la cosa meno di destra che si possa immaginare (nonché una dimostrazione di soccombenza culturale al peggior sinistrismo) – non dimentichiamo che a lisciare il pelo dei no pass c’era anche la Cgil, assaltata da delinquenti destri che hanno in uggia la destra parlamentare e sono analfabeti quanto basta da potere sfondare a prescindere. L’economia del ristoro non ha un solo colore, ma una sola pennellessa: sperare di vivere alle spalle altrui. Di nuovo: no, grazie.
di Davide Giacalone
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