Al centro del bellissimo pavimento del Duomo di Siena si trova una raffigurazione della ruota della fortuna che risale al XIV secolo. È un’immagine tipicamente medievale, la troviamo negli scritti di Boezio e perfino nei Tarocchi: una figura umana siede intronata in cima a una grande ruota, un’altra è in basso aggrappata faticosamente e due stanno salendo e scendendo dai due lati.
In queste Olimpiadi hanno fatto molto rumore la capitolazione di alcuni campioni: Simone Biles si ritira braccata dal malessere psicologico; Djokovic, uscito da Wimbledon in un inarrestabile trionfo, s’ingolfa e spacca la racchetta; Osaka per descrivere la sua performance non trova che parolacce. Quello che siamo tentati di descrivere come un crepuscolo degli dèi fa più probabilmente parte di una fisiologia che i medievali descrivevano con la suggestiva immagine della rota fortunae: non è possibile vivere per sempre il proprio miglior giorno.
Se cerchiamo la tenacia olimpica nell’antico fissando la figura del regnante sbagliamo, la troviamo invece in coloro che cadono e salgono. Le mani strette, la forza delle gambe chiuse sul curvilineo legno, la schiena solida: in questo, più che nell’intronato, scorgiamo il corpo di un campione.
Abbiamo guardato Biles e ci siamo domandati se sia degna, ai nostri occhi, del titolo olimpico, il lauro che incorona atleti impareggiabili. È però evidente che il motto olimpico “citius, altius, fortius” non si riferisce meramente al momento del trono (o della medaglia), ma piuttosto descrive la lunga aspirazione e il percorso composito solamente cristallizzato da una medaglia. L’eccellenza che celebriamo e la virtù che ricerchiamo stanno a lungo lontane dai podi, alle estremità opposte della ruota, lì dove oggi vediamo per un istante Simone Biles e gli altri dèi creduti al crepuscolo. Non stanno lì a tramontare, ma a forgiarsi.
di Giovanni Cerboni
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