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La traduzione come strategia di pace

La traduzione come strategia di pace

Uno dei tre articoli finalisti della borsa di studio in collaborazione con l’Università IULM per il corso di studi “Traduzione specialistica e interpretariato di conferenza”. Il tema è: “traduzione come strumento di dialogo fra popoli e culture”.
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La traduzione come strategia di pace

Uno dei tre articoli finalisti della borsa di studio in collaborazione con l’Università IULM per il corso di studi “Traduzione specialistica e interpretariato di conferenza”. Il tema è: “traduzione come strumento di dialogo fra popoli e culture”.
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La traduzione come strategia di pace

Uno dei tre articoli finalisti della borsa di studio in collaborazione con l’Università IULM per il corso di studi “Traduzione specialistica e interpretariato di conferenza”. Il tema è: “traduzione come strumento di dialogo fra popoli e culture”.
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Uno dei tre articoli finalisti della borsa di studio in collaborazione con l’Università IULM per il corso di studi “Traduzione specialistica e interpretariato di conferenza”. Il tema è: “traduzione come strumento di dialogo fra popoli e culture”.
Il mestiere del traduttore è tanto antico quanto affascinante. Se pensiamo al lavoro degli scribi che prima ancora del periodo classico trascrivevano i testi per favorire la comunicazione tra re e imperatori, a quello dei monaci benedettini e degli amanuensi che hanno reso immortali autori come Socrate, Aristotele e Platone, non è un’esagerazione affermare che senza i traduttori non sarebbe sopravvissuta la cultura. Prendersi la libertà di vagabondare per terre lontane o sgattaiolare da un’epoca all’altra è un piacere a cui è difficile rinunciare. Provate a immaginare una lettrice d’oltreoceano che si immerge nelle viuzze siciliane del 1860 e fantastica di prepararsi per il ballo a Palazzo Ponteleone. Così come un lettore italiano, ad esempio, può catapultarsi nella Lima degli anni ’50 fino ad arrivare nella Madrid multietnica degli anni ’80 pur non conoscendo la lingua con cui Vargas Llosa ha scritto, e pensato, quel viaggio. Cos’hanno in comune la lettrice che non conosce la lingua madre di Tomasi di Lampedusa e il lettore che non conosce lo spagnolo? La volontà di compiere un gesto di ospitalità verso un’altra cultura. Ma questo gesto di ospitalità non sarebbe stato possibile se prima qualcuno non avesse accolto la lingua del testo di partenza. E accogliere, infatti, non è solo ospitare ma è anche mettersi in gioco, riconoscere l’altro, dire in una lingua proprio ciò che l’altra tende a tacere. A differenza di quanto si potrebbe pensare, la costante interrogazione, e perciò traduzione, dei testi è ben lontana dall’essere statica e unidirezionale. Questa attività è temprata nell’esercizio del comprendere a fondo il mondo dell’altro ed è dunque, per virtù intrinseca, impossibilitata a saltare a conclusioni affrettate. Un popolo che rinuncia a tradurre nella propria lingua la civiltà degli altri o diventa pericoloso o, se non può essere aggressivo, si condanna al sottosviluppo. La traduzione non è quindi solo una tecnica ma, piuttosto, una strategia di pace e una garanzia di prosperità. E allora perché tradurre è spesso così difficile? Il primo ostacolo si annida nella profondità del pensiero di cui appropriarsi, il secondo, più insidioso, nella lontananza tra due lingue che veicolano due culture diverse. Ed è appunto tale preziosissima lontananza che fece e fa tuttora della traduzione un cantiere sempre aperto che ci costringe a mutare di volta in volta prospettiva, concedendoci perfino il lusso di cambiare opinione su di noi e sugli altri.   di Giorgia Alaimo    

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