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Casaleggio Jr vuole cambiare nome al M5S

Casaleggio Jr ha invitato Conte a cambiare nome al M5S. Rinominare un partito per segnalare ventate di rinnovamento è un’antica fascinazione della politica. Sicuri funzioni così?
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Casaleggio Jr vuole cambiare nome al M5S

Casaleggio Jr ha invitato Conte a cambiare nome al M5S. Rinominare un partito per segnalare ventate di rinnovamento è un’antica fascinazione della politica. Sicuri funzioni così?
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Casaleggio Jr vuole cambiare nome al M5S

Casaleggio Jr ha invitato Conte a cambiare nome al M5S. Rinominare un partito per segnalare ventate di rinnovamento è un’antica fascinazione della politica. Sicuri funzioni così?
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Casaleggio Jr ha invitato Conte a cambiare nome al M5S. Rinominare un partito per segnalare ventate di rinnovamento è un’antica fascinazione della politica. Sicuri funzioni così?
L’ultimo in ordine di tempo è stato Casaleggio jr, che ha invitato Giuseppe Conte a cambiare nome al M5S visto che a suo avviso non ha più niente di eguale al MoVimento fondato da suo padre e Beppe Grillo. Cambiare nome perché si è diversi. Però c’è anche chi invoca il cambio di nome per tornare a essere ciò che non si è più. Si tratta della corrente ‘radicale’ del Pd, da Schlein a Orlando per finire al rientrante Scotto: tutta gente che vuole cambiare nome al partito per fargli assumere un’identità più di sinistra, tornando alle radici, al partito che si occupa del lavoro e dei lavoratori, soprattutto se stanno fuori dalle Ztl. Cambiare nome per segnalare una nuova identità oppure per recuperare quella perduta. Sicuri che funzioni così? La sindrome del cambio di nome, sollecitata o liberamente scelta, non è una novità. Da decenni attanaglia – o, se si preferisce, affascina – il campo di sinistra ‘allargato’. Dal dibattito, ormai segnato dalla polvere, che riguardò la “Cosa” 2 di D’Alema (toh, chi si rivede…) a oggi. E se dovesse esserci prima il nome e poi la Cosa o viceversa. Dibattito allora stucchevole e adesso semplicemente incomprensibile. Tuttavia la fascinazione resta. Il cambio di nome è un portentoso alibi per rifare a ritroso il percorso di chi se n’è andato causa mancanza di ossigeno elettorale. Oppure serve a segnalare una discontinuità assai più di superficie che di sostanza. Soprattutto conferma il carattere esoterico del confronto politico in Italia, fatto di escamotage nominalistici piuttosto che di scontri sulla sostanza. Già, perché solo un imbonitore può tentare di illudere che un nome diverso possa diventare un involucro che contiene un significato diverso. Qualche buontempone potrebbe aver voglia di compitare la filastrocca del Cavaliere per descrivere i suoi avversari: Pci, Pds, Ds, Pd, sempre gli stessi. È urticante ma non così lontano dal vero. Comunque si tratta di quel pezzo di elettorato che si riconosce a sinistra e che segue i camuffamenti o le rifondazioni dei partiti di riferimento ma che alla fine sempre da quella parte vota. Idem per i 5 Stelle: da grillini possono diventare il partito di Conte. Ma Casaleggio può dormire tranquillo o angosciato a seconda di come preferisce: in ogni caso di populisti con venature anti-sistema si tratta. Se cambi la foto sulla carta d’identità il nome è sempre quello; se cambi il nome è la foto che ti identifica. Magari il giochino diverte. Solo un dubbio: di grazia, ma la politica dove sta? Probabilmente altrove. Di Carlo Fusi

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