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L'Italia che verrà

L’Italia che verrà

Dobbiamo uscire dalla tristezza del mestare e riprendere la gioia del realizzare, come riesce all’Italia che compete
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L’Italia che verrà

Dobbiamo uscire dalla tristezza del mestare e riprendere la gioia del realizzare, come riesce all’Italia che compete
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Dobbiamo uscire dalla tristezza del mestare e riprendere la gioia del realizzare, come riesce all’Italia che compete
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Dobbiamo uscire dalla tristezza del mestare e riprendere la gioia del realizzare, come riesce all’Italia che compete
Quali siano le stagioni e gli anni decisivi lo stabiliscono il tempo e i posteri, non i contemporanei. Il 2024 vedrà la chiamata alle urne della più vasta area democratica del mondo: l’Unione europea prima e gli Stati Uniti poi. A queste elezioni si affiancherà la pagliacciata russa, con Putin in competizione con avversari morti ammazzati o chiusi in galera. Ogni elezione, nel mondo democratico, è l’inizio di una storia nuova. Ma ogni elezione è la continuazione di una storia nota. Il nostro mondo, democratico e libero, non è il migliore dei mondi immaginabili, ma il migliore di quelli esistenti. Gli esiti elettorali sono nelle mani degli elettori e possono dipendere da molti e diversi fattori. Quando prevale la razionalità pesano gli interessi, quando prevale la faziosità aumentano di peso le emozioni. Da quel che si scorge, nel nostro mondo, nessuna forza prevarrà nettamente sulle altre e nessun potere potrà prevaricare gli altri. In questo non risiede la nostra fragilità, ma la nostra forza. Solo in un mondo siffatto ci si alza la mattina e si può credere di cominciare a correre per sé e per i propri interessi, prendendo il passo della lepre. Altrove ci si sveglia sapendo di doversi difendere dalla prepotenza statale e si corre meno del dovuto, prendendo il passo del cane, che corre per il padrone. Molti e significativi sono i problemi che ci trasciniamo dietro, ma il nostro Occidente resta il mondo della libertà, il più ricco e il più sano. In Italia viviamo però il trentennio dell’immobilismo, crescendo assai meno degli altri occidentali. Non è una questione congiunturale e il discorso non cambia se in qualche parentesi, come dopo la pandemia, facciamo meglio degli altri. Cresciamo meno anche perché l’idea di svegliarsi e correre per sé è considerata illusoria. Non senza ragioni. Troppa della nostra corsa è risucchiata dal fisco, che alimenta uno Stato sociale generoso, di cui potremmo essere orgogliosi se indirizzato ad aiutare i più deboli, ma di cui dovremmo indignarci se sviato a finanziare i falsi poveri e veri evasori fiscali, se deragliato in pensioni regalate a chi ha contribuito assai meno di quel che incassa. Un racconto distorto dell’uguaglianza spinge a tollerare un modello in cui non si mette ciascuno nella condizione di correre, ma si evita di premiare chi è più veloce. Abbiamo raccontato talune eccellenze chirurgiche, ma anche senza andare all’eccellenza provate a mettere piede in un Pronto soccorso di notte, non con le telecamere, non per documentare il sovraffollamento in momenti di emergenza, ma personalmente e nella normalità: ci sono fior di professionisti che non mollano davanti a niente e ci sono volontari che salgono e scendono dalle ambulanze. Corrono, eccome se corrono. Ma guadagnano quanto quelli che non ci sono e non ci saranno. Nella scuola abbiamo insegnanti bravissimi, ma guadagnano quanto gli analfabeti svogliati. Fra i banchi di scuole e università abbiamo ragazzi ammirevoli, ma li sottoponiamo al rallentamento dei somari. E non si può nemmeno dirlo, perché nell’imbastardimento del linguaggio sarebbe considerata una discriminazione, mentre quella che si pratica è a danno dei più bravi e a condanna di chi non è spinto alla sfida della conoscenza e lasciato all’indolenza. Così abbiamo più giovani che non studiano e non lavorano del resto d’Europa. E anziché porci il problema di come li si sprona, ci poniamo quello di come li si mantiene così come sono.
Correre e misurarsi non è darwinismo sociale, selezione che penalizza chi rimane indietro, ma libertà che aumenta il benessere di tutti e indica a chi non riesce la possibilità di riuscire altrove. Abbiamo bisogno di stappare l’Italia, di toglierle l’ostruzione asfissiante delle rendite improduttive e dei privilegi non meritati. Dobbiamo uscire dalla tristezza del mestare e riprendere la gioia del realizzare, come riesce all’Italia che compete.
Decisivo non è il 2024, ma ogni giorno a venire, ogni risveglio con la voglia di cambiare le cose. Auguri.
Di Davide Giacalone
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