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Manovra, tra sogni e realtà

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Pochi i margini di manovra, poche le speranze di crescita, pochissime le risorse da allocare. Le 3 non verità della Manovra 2025

Meloni, Salvini,Tajani

Manovra, tra sogni e realtà

Pochi i margini di manovra, poche le speranze di crescita, pochissime le risorse da allocare. Le 3 non verità della Manovra 2025

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Manovra, tra sogni e realtà

Pochi i margini di manovra, poche le speranze di crescita, pochissime le risorse da allocare. Le 3 non verità della Manovra 2025

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La manovra vien di notte. Preceduta dall’immancabile – appianatorio e risolutivo – vertice a tre: Meloni, Salvini e Tajani. Non porta doni (non è stagione) ma rassicurazioni sì: niente nuove tasse; niente tagli ai Ministeri che contano; niente stop ai sussidi per gli amici, vecchi e nuovi. E dunque la discussione in Consiglio con ritrovata armonia e speditezza d’intenti. Poi la notte finisce e la melassa dei sogni pure: arriva la realtà e cambia tutto. Se il termine “bugia” è troppo urticante possiamo sostituirlo con “non verità”. Noi italiani siamo maestri in questo: non sfiducia, non voto, non opposizione et cetera. Mettiamole in fila.

Prima non verità: il vertice va bene per i titoli dei tg ma di risolutivo, com’è tradizione, non c’è nulla. Il centrodestra litiga su tutto lo scibile possibile e poi ritrova unità nei passaggi mediaticamente sensibili. Tanto poi al termine ogni volta si ricomincia: e questo non va bene, quest’altro neppure, quell’altro ancora non si può fare e via così, surfando fino a fine legislatura. Seconda non verità: la discussione in Consiglio non appiana nulla e non soltanto per le divaricazioni strutturali in seno alla maggioranza ma perché è noto che la manovra deve essere in linea con il bilancio da presentare alla Ue sulla base degli impegni vincolanti sottoscritti dal governo e dal titolare dell’Economia. Hai voglia a essere Fregoli e cambiare d’abito a seconda se parli a “Bloomberg” o sul pratone di Pontida: alla Commissione devi presentare, seppur con i tradizionali ritardi nostrani, cifre e indicazioni vincolanti. Per cui i contenuti essenziali della legge di bilancio sono stati, primariamente e inevitabilmente, concordati con Bruxelles. Ai partecipanti al Consiglio restano da discutere le briciole e, volendo, accapigliarsi su qualche voce periferica. Sempre a vantaggio di Tg e talk show. Terza non verità: pure l’accapigliamento è più fuffa che sostanza. Primo perché su una spesa pubblica complessiva di 1.000 miliardi l’anno, sostenere che trovarne 4 è complicato è davvero dura. Poi perché nessun governo come l’attuale può godere di una marea di soldi da spendere: centinaia di miliardi – parte a fondo perduto, parte da restituire – che grondano dal Pnrr. Solo che sono soldi che hanno un vincolo ben preciso: devono essere impegnati in investimenti e opere strutturali, meglio se accompagnati da riforme dello stesso genere. Che latitano. Ma anche così la situazione non è tanto male. Potendo contare su quelle risorse, non rimane che lavorare su riduzioni di spesa e rimodulazione (si dice così?) di entrate. Magari cercando di ridurre il mostruoso debito che stringe al collo il Paese. Invece niente.

Il governo precedente, quello presieduto da Mario Draghi con Daniele Franco a via XX settembre, aveva immaginato di aggirare le difficoltà puntando sulla crescita del Prodotto interno lordo che, obbligatoriamente, avrebbe trascinato con sé il contenimento del debito. Al contrario, l’attuale esecutivo ha sbagliato le previsioni (perfino l’Istat ha dovuto certificarlo) e le stime di crescita sono state riviste al ribasso: inarrivabile l’1%, ora siamo ai decimali tipo 0,8% e spicci. Tirando le fila. Pochi i margini di manovra, poche le speranze di crescita, pochissime le risorse da allocare. Giorgetti aveva provato a parlare il linguaggio della verità, almeno in parte. La clip della presidente del Consiglio l’ha zittito e costretto a fare retromarcia: hai visto mai che gli elettori si innervosiscano… Si dirà: per le opposizioni si spalancano praterie. No, grazie. Al Nazareno, come sottolinea sagacemente Mario Lavia, si recitano slogan: più sanità, più lavoro, più scuola et cetera. Perfetto: dove trovare le risorse è secondario. Quanto ai Cinque Stelle di Conte, la parola d’ordine è sì attaccare il governo, che tanto non costa nulla, ma soprattutto sganciarsi dal Pd. «Conte non va pressato» avverte Goffredo Bettini. Per carità, non sia mai.

Di Carlo Fusi

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