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Il 7 ottobre

Oltre il massacro del 7 ottobre

L’avvilente campagna di disinformazione che ha coinvolto piazze e università ha fatto sì che il massacro del 7 ottobre fosse rappresentato come un “atto di resistenza”

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Oltre il massacro del 7 ottobre

L’avvilente campagna di disinformazione che ha coinvolto piazze e università ha fatto sì che il massacro del 7 ottobre fosse rappresentato come un “atto di resistenza”

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Oltre il massacro del 7 ottobre

L’avvilente campagna di disinformazione che ha coinvolto piazze e università ha fatto sì che il massacro del 7 ottobre fosse rappresentato come un “atto di resistenza”

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L’avvilente campagna di disinformazione che ha coinvolto piazze e università ha fatto sì che il massacro del 7 ottobre fosse rappresentato come un “atto di resistenza”

L’avvilente campagna di disinformazione che ha coinvolto piazze e università ha fatto sì che il massacro del 7 ottobre – costato l’uccisione di 1.200 ebrei, il ferimento di altri 4mila e la cattura di 250 ostaggi, oltre a indicibili atrocità per donne e bambini – fosse rappresentato come un ‘atto di resistenza’ e offuscato dalle accuse rivolte a Israele di aver reagito causando distruzioni e 42mila morti fra la popolazione civile, tra cui molti bambini. In pochi hanno rimarcato la responsabilità di Hamas che ha utilizzato i palestinesi come scudi umani e ha sconfessato il modello quietista annunciato nel 2017 con le modifiche allo Statuto originario.

L’abbandono degli espliciti richiami alla jihad della Fratellanza Musulmana e all’obiettivo ‘esistenziale’ di annientare il popolo ebraico – in quanto ancestrale stirpe nemica di Maometto e della discendenza di tutta la umma musulmana – rappresentava soltanto una scelta di convenienza tattica: in quel momento storico il Partito di Dio mirava ad avvicinare i Paesi arabi, soprattutto Egitto e Giordania, che avevano bandito la radicalizzazione e gli ultimi fondamentalisti della Fratellanza. Hamas nel frattempo ha dirottato l’enorme mole degli aiuti finanziari per armarsi e apprestare postazioni difensive e quando si è vista in una fase critica dei consensi fra la popolazione – vessata da un sistema di potere che non le ha garantito né prosperità né democrazia – ha avuto bisogno di rilanciare la sua leadership all’interno del movimento jihadista, ormai frammentato in almeno 14 fazioni. Il disegno ha collimato perfettamente con gli interessi della potenza regionale storicamente rivale dello Stato ebraico e cioè l’Iran sciita, che da tempo persegue la destabilizzazione nell’area per affermare la sua egemonia armando, finanziando e indirizzando i proxy del cosiddetto Asse della Resistenza: la stessa Hamas (la cui matrice sunnita non ha rappresentato un ostacolo), Hezbollah in Libano e le altre milizie sciite in Siria e Iraq, compresi gli Houthi che dallo Yemen hanno bloccato il flusso del commercio marittimo mondiale nel Mar Rosso.

A un anno dal massacro, benché Israele abbia ridimensionato il sistema dei proxy, non va sottovalutata la narrazione della leadership politico-religiosa iraniana. Il leader di Hezbollah Nasrallah, ucciso dagli israeliani, è celebrato come un martire dell’Islam: si vorrebbe che la sua tomba venisse eretta a Karbala, città sacra dell’Iraq legata a uno dei miti fondativi dell’Islam sciita. L’ayatollah Ali Khamenei è tornato a guidare, per la prima volta dal 2020, i sermoni durante le preghiere del venerdì: davanti a decine di migliaia di fedeli è apparso con un fucile al fianco e ha parlato sia in farsi (la lingua iraniana) sia in arabo per rivolgersi a tutta la umma musulmana anche dei Paesi arabi (l’Iran non è fra questi, come la Turchia). «Tutti i Paesi, compresi la Palestina e il Libano, hanno il diritto di difendersi secondo le regole islamiche e internazionali e nessun Paese od organizzazione internazionale può criticare i palestinesi o i libanesi per la loro resistenza contro il regime occupante sionista» ha detto, per poi aggiungere: «Oggi il nemico dell’Iran è il nemico della Palestina, del Libano, dell’Iraq, dell’Egitto, della Siria e dello Yemen».

Finora i Paesi arabi – in testa Egitto, Giordania e Arabia Saudita – sono stati guidati da un’idea comune: l’attacco del 7 ottobre di Hamas e la discesa in campo di Hezbollah e degli altri gruppi anti-Israele sono stati visti anche da loro come un chiaro disegno egemonico dell’Iran, cui fa comodo infiammare la radicalizzazione dell’Islam. L’ago della bilancia sembra rimanere in Medio Oriente e proprio nel mondo arabo. Netanyahu deve dunque misurarsi con questa prospettiva, per contrastare la condanna all’isolamento deciso dall’Iran e da Hamas con l’attacco del 7 ottobre: miravano a far saltare gli Accordi di Abramo. Quel progetto di alleanza fra Israele e i Paesi arabi potrebbe puntare ancora a ricostruire la stabilità regionale, in cui poter definire la questione palestinese e una linea comune contro il ritorno del jihadismo e la minaccia destabilizzante (inclusa quella nucleare) dell’Iran sciita.

di Maurizio Delli Santi

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